Date parole al dolore

 Come aiutare i bambini ad affrontare il lutto

 "Date parole al dolore: il dolore che non parla bisbiglia al cuore

 sovraccarico e gli ordina di spezzarsi" (William Shakespeare, Macbeth)

 

La nostra società erige, da tempo, barriere difensive intorno alla morte. Abbiamo perso i riti, le parole, le abitudini che portavano conforto a chi doveva affrontare un lutto, abbiamo ridotto a scarne comunicazioni il racconto delle malattie e delle perdite, come fossero dei tabù. Mai come nel nostro tempo, per non parlare di questo tempo colpito dalla pandemia, la morte e il morire sono relegati agli ospedali, il commiato ridotto a un rito veloce e asettico. Immersi in questo clima non siamo “allenati” alla condivisione del dolore estremo, abbiamo perso quel supporto sociale che può sostenere nello stare nell'esperienza del lutto, nel condividere il nostro dolore e nell'accogliere il dolore dell’altro. Così, spesso, nonostante tutto il sapere psicologico e pedagogico che abbiamo costruito, troviamo inaffrontabile il dolore della perdita, soprattutto se è un bambino a subirla, e perdiamo le parole e la capacità empatica per stare accanto a chi soffre.

L’incontro del bambino con la morte

Il primo incontro di un bambino con la morte avviene spesso attraverso il mondo animale: l’uccellino trovato sulla via, il gatto investito da un’auto, l’animale domestico con cui il bambino è cresciuto e che muore di vecchiaia. Anche per gli adulti che sono vicini a questo bambino è una “prima volta”, il primo grande dolore a cui si è chiamati a dare senso e conforto. La prima reazione, istintiva, è quella di proteggerlo per evitargli la sofferenza e quindi non dire la verità, o non tutta la verità.

Anna richiede un colloquio all'età di 17 anni, dopo una perdita importante avvenuta tragicamente. Le persone intorno a lei faticano a parlare di quanto successo e lei a condividere la sua pena e il suo terribile senso di colpa. Un ricordo nelle prime sedute ci avvicina a questo dolore. Anna, aveva circa 7 anni, aveva trascorso l’estate in montagna con i genitori, il fratellino di 4 anni e il cagnolino Dick che era stato il loro più grande e fedele compagno di giochi. Al momento di tornare a casa alla fine delle vacanze i genitori dissero che Dick non stava molto bene e sarebbe rimasto per un po’ dal macellaio del paese per essere curato. Tornati a casa, ripresa la scuola Anna, che aveva dentro di sé una percezione inquietante e dolorosa, sentì parlare in casa di cimurro, si informò con la maestra e capì. Capì e si sentì tradita, sola, schiacciata dall’imperativo del silenzio e dai sensi di colpa per non aver avuto abbastanza cura di Dick. Silenzio e sensi di colpa che rischiano di ripetersi ora, nella sua dolorosa vicenda di adolescente.

Ecco, quindi un primo e fondamentale pensiero intorno alla esperienza della morte vissuta da un bambino, ma direi da chiunque: mai silenzio e negazione possono essere di aiuto.

L’esperienza della morte nelle diverse età

Adulti e bambini affrontano le esperienze traumatiche in modi molto differenti. Il raggiungimento di una certa maturità affettiva e cognitiva permette all’adulto di utilizzare una vasta gamma di difese per affrontare con gradualità il dolore e avviarsi, con le proprie risorse interne, nel percorso di elaborazione del lutto. Può, inoltre, mettere in parole la propria pena, condividerla e in questo modo ricevere conforto e sostegno, anche se questo diviene possibile solo “dopo”, dopo che il dolore si è inciso prima sulla pelle e nel corpo in cui penetra occupando ogni spazio. Poi finalmente le parole compaiono, con l’urgenza di essere raccontate e condivise. Il bambino nasce con un apparato psichico le cui meravigliose potenzialità devono ancora svilupparsi; per questo dipende totalmente dall’adulto per la sua vita fisica ma anche per quella psichica. È quindi più vulnerabile e necessita dell’adulto per sentirsi protetto e affrontare emozioni e sentimenti che altrimenti lo travolgerebbero. È soprattutto la madre o in genere chi si prende cura del bambino, che può aiutarlo, decifrando, traducendo per lui sentimenti ed emozioni per restituirglieli elaborati, “digeriti”, come fa per ogni esperienza, attraverso la comprensione empatica, le parole, ma soprattutto il tono della voce, la melodia, la vicinanza fisica. Nei primissimi mesi ed anni di vita, quando è inscindibile l’unione tra mente e corpo, l’espressione del dolore e dell’angoscia, come tutte le emozioni, si manifesterà come una reazione psicosomatica, attraverso il pianto disperato e inconsolabile, ma più spesso con problemi nella sfera dell’alimentazione, del sonno, con comportamenti regressivi come succhiarsi il dito o bagnare il letto, tic, oppure con un calo delle difese immunitarie e la conseguente tendenza ad ammalarsi. Manifestazioni che non devono essere di per sé considerate patologiche, ma essere osservate nel loro evolversi. Fino a 4/5 anni il bambino non possiede il senso dell’irreversibile, il concetto di “per sempre” o “mai più”. Quindi potrà chiedersi quando torna la persona che è morta, dove è andata, interpreterà alla lettera le parole che siamo soliti usare per indicare la morte (se n’è andato...la scomparsa... ha concluso il suo viaggio...) con quel pensiero spietatamente logico che lo caratterizza. Il bambino a questa età vuole capire e coglie perfettamente le contraddizioni tra le parole e lo stato d’animo di chi gli sta intorno. Conosce inoltre l’esperienza della mancanza, ogni separazione è per lui una perdita da affrontare, per la quale ha iniziato ad attrezzarsi. Dopo questa età il bambino, in grado di comprendere il concetto di morte, può anche erigere difese quando sperimenta come un dolore insopportabile i sentimenti di nostalgia, disperazione, rabbia, senso di impotenza connessi al lutto. Così può passare da comportamenti esplosivi a momenti di isolamento e negazione, come se non fosse successo nulla.

Eleonora, 8 anni, urla con disperazione alla sua maestra “Ma perché proprio a me, perché la mia mamma, ma non devono morire prima i nonni, mi avete raccontato che si muore quando si è vecchi....” Inconsolabile piange a lungo fuori dall’aula, poi, all'intervallo va a giocare con i compagni.

Può tentare di “indurire” il suo cuore evitando di stabilire rapporti affettivi per non trovarsi a soffrire nuovamente. Questa difesa è spesso adottata dagli adolescenti, per i quali può essere molto destabilizzante avvertire così forte il dolore di una mancanza in un momento in cui cercano invece di raggiungere la loro autonomia. Passare dai sentimenti più strazianti a momenti in cui i bambini giocano dimentichi, sembra, del dolore non è un comportamento “insensibile”, è una difesa necessaria perché ognuno ha una sua personale capacità di tollerare l'esposizione al dolore e di affrontare la realtà. Non è da biasimare un bambino attratto dai giochi e dagli amici sebbene abbia perso una persona cara, ma nemmeno l'adulto che si accorge di provare fastidio, sconcerto, forse anche invidia di fronte alla capacità del piccolo di rimanere ancorato alla vita, cosa per lui molto più difficile. Solo riconoscendo questo sentimento si può lasciar andare il bambino senza, inconsapevolmente, trattenerlo nel dolore.

Aiutare il bambino, esperienza possibile

La fatica di parlare ai bambini della morte nasce dalla consapevolezza della loro vulnerabilità. Quando il lutto colpisce un bambino, è come se avvertissimo il rischio del crollo della sua fiducia di base: potrà ancora fidarsi di un adulto che non l’ha saputo proteggere dalla morte? Come farà a fare i conti con la perdita di quella idea di onnipotenza che i bambini attribuiscono ai genitori, spesso ben oltre l’età in cui la ragione suggerisce che nessuno in terra è onnipotente? È però proprio il senso di smarrimento, la non disponibilità a condividere il dolore che daranno al bambino la sensazione che l'adulto sia troppo debole, spaventato e quindi incapace di proteggerlo e aiutarlo. Quando la morte riguarda un familiare vicino, un genitore, un fratello, spesso il bambino sperimenta una doppia perdita. In questi casi l’evento arriva come un uragano a sconvolgere l’assetto di una famiglia. Il genitore superstite è gravato dal doppio compito di sopportare ed elaborare il proprio dolore e sostenere quello del figlio. Nessuno è mai pronto per questo, in particolare se si tratta del proprio figlio.

Marco ha 4 anni e mezzo quando muore il papà in un incidente, il fratello ne ha 11. La mamma, sconvolta dal dolore, fatica ad alzarsi dal letto, la famiglia viene accudita dai nonni. Lo incontro per una consultazione, sembra presentare una improvvisa regressione nel linguaggio; credo che la richiesta nasca soprattutto dal fatto che nessuno sa come parlargli. Marco inizia immediatamente a giocare, prende la famiglia, mette il padre nel punto più lontano della stanza con un’auto vicina. Poi prende la mamma, la lascia cadere per terra, la copre con un foglio e dice che è morta.

Il silenzio intorno ai sentimenti che l’evento luttuoso suscita lascia il bambino solo con emozioni difficili da governare e da comprendere, con una realtà che, proprio perché innominabile, si riempie di fantasie angosciose e di spiegazioni bizzarre. Marco, nel gioco, racconta la sua verità, cioè il sentire vicino a sé una mamma “morta”, una mamma non disponibile alla relazione. Non lasciare che il silenzio circondi la morte significa porsi in una disposizione d'animo rivolta all’ascolto profondo, allo stare insieme nel condividere la verità e il dolore che ne deriva, al permettere che parole e silenzi si riempiano di significato. Se un adulto amorevole si pone in ascolto, il bambino troverà il coraggio di fare domande, anche le più dolorose o strane, a cui è necessario che l’adulto risponda con sincerità, all’interno della visione familiare della vita e della morte, sia essa religiosa o atea. Affrontare il dolore non significa non averne paura, ma riconoscerlo come parte inevitabile della vita, e il soffrire come esperienza del tutto normale. Se l’adulto accetta di sentire il proprio dolore trasmetterà al bambino un messaggio di incalcolabile valore: l’universalità dell’esperienza, il suo essere, sebbene sconvolgente, condivisibile e alla fine superabile. Può essere utile trovare un momento intimo, che si ripeta ogni giorno, per stare con il bambino e parlare di quello che è successo, dei sentimenti che si provano, accogliendo le domande, senza forzarle. L’intimità e la complicità possono essere favorite dalla lettura di un libro, la visione di un film, che prestino parole quando non si è in grado di trovarne. Ricordare, quando il momento più acuto del dolore si è un po’ affievolito, le esperienze belle tra[1]scorse con chi non c’è più, rinsalda la forza di quel buono rimasto dentro di noi che può trasformare la pena in nostalgia. Non è solo una questione di ricordi: è un’esperienza sempre viva, presente, quello che siamo lo dobbiamo anche alla relazione con chi non c’è più.

Sabina Dal Pra' Nielsen

 Pubblicato sulla rivista Il Folletto 1/2021 - Istituto svizzero Media e Ragazzi ISMR

 

 

 Nonostante tutto il sapere psicologico e pedagogico che abbiamo costruito,

troviamo inaffrontabile il dolore della perdita,

soprattutto se è un bambino  a subirla,

e perdiamo le parole e la capacità empatica per stare accanto a chi soffre.