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PER RIFLETTERE INSIEME

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PER RIFLETTERE INSIEME

Date parole al dolore

 Come aiutare i bambini ad affrontare il lutto

 "Date parole al dolore: il dolore che non parla bisbiglia al cuore

 sovraccarico e gli ordina di spezzarsi" (William Shakespeare, Macbeth)

 

La nostra società erige, da tempo, barriere difensive intorno alla morte. Abbiamo perso i riti, le parole, le abitudini che portavano conforto a chi doveva affrontare un lutto, abbiamo ridotto a scarne comunicazioni il racconto delle malattie e delle perdite, come fossero dei tabù. Mai come nel nostro tempo, per non parlare di questo tempo colpito dalla pandemia, la morte e il morire sono relegati agli ospedali, il commiato ridotto a un rito veloce e asettico. Immersi in questo clima non siamo “allenati” alla condivisione del dolore estremo, abbiamo perso quel supporto sociale che può sostenere nello stare nell'esperienza del lutto, nel condividere il nostro dolore e nell'accogliere il dolore dell’altro. Così, spesso, nonostante tutto il sapere psicologico e pedagogico che abbiamo costruito, troviamo inaffrontabile il dolore della perdita, soprattutto se è un bambino a subirla, e perdiamo le parole e la capacità empatica per stare accanto a chi soffre.

L’incontro del bambino con la morte

Il primo incontro di un bambino con la morte avviene spesso attraverso il mondo animale: l’uccellino trovato sulla via, il gatto investito da un’auto, l’animale domestico con cui il bambino è cresciuto e che muore di vecchiaia. Anche per gli adulti che sono vicini a questo bambino è una “prima volta”, il primo grande dolore a cui si è chiamati a dare senso e conforto. La prima reazione, istintiva, è quella di proteggerlo per evitargli la sofferenza e quindi non dire la verità, o non tutta la verità.

Anna richiede un colloquio all'età di 17 anni, dopo una perdita importante avvenuta tragicamente. Le persone intorno a lei faticano a parlare di quanto successo e lei a condividere la sua pena e il suo terribile senso di colpa. Un ricordo nelle prime sedute ci avvicina a questo dolore. Anna, aveva circa 7 anni, aveva trascorso l’estate in montagna con i genitori, il fratellino di 4 anni e il cagnolino Dick che era stato il loro più grande e fedele compagno di giochi. Al momento di tornare a casa alla fine delle vacanze i genitori dissero che Dick non stava molto bene e sarebbe rimasto per un po’ dal macellaio del paese per essere curato. Tornati a casa, ripresa la scuola Anna, che aveva dentro di sé una percezione inquietante e dolorosa, sentì parlare in casa di cimurro, si informò con la maestra e capì. Capì e si sentì tradita, sola, schiacciata dall’imperativo del silenzio e dai sensi di colpa per non aver avuto abbastanza cura di Dick. Silenzio e sensi di colpa che rischiano di ripetersi ora, nella sua dolorosa vicenda di adolescente.

Ecco, quindi un primo e fondamentale pensiero intorno alla esperienza della morte vissuta da un bambino, ma direi da chiunque: mai silenzio e negazione possono essere di aiuto.

L’esperienza della morte nelle diverse età

Adulti e bambini affrontano le esperienze traumatiche in modi molto differenti. Il raggiungimento di una certa maturità affettiva e cognitiva permette all’adulto di utilizzare una vasta gamma di difese per affrontare con gradualità il dolore e avviarsi, con le proprie risorse interne, nel percorso di elaborazione del lutto. Può, inoltre, mettere in parole la propria pena, condividerla e in questo modo ricevere conforto e sostegno, anche se questo diviene possibile solo “dopo”, dopo che il dolore si è inciso prima sulla pelle e nel corpo in cui penetra occupando ogni spazio. Poi finalmente le parole compaiono, con l’urgenza di essere raccontate e condivise. Il bambino nasce con un apparato psichico le cui meravigliose potenzialità devono ancora svilupparsi; per questo dipende totalmente dall’adulto per la sua vita fisica ma anche per quella psichica. È quindi più vulnerabile e necessita dell’adulto per sentirsi protetto e affrontare emozioni e sentimenti che altrimenti lo travolgerebbero. È soprattutto la madre o in genere chi si prende cura del bambino, che può aiutarlo, decifrando, traducendo per lui sentimenti ed emozioni per restituirglieli elaborati, “digeriti”, come fa per ogni esperienza, attraverso la comprensione empatica, le parole, ma soprattutto il tono della voce, la melodia, la vicinanza fisica. Nei primissimi mesi ed anni di vita, quando è inscindibile l’unione tra mente e corpo, l’espressione del dolore e dell’angoscia, come tutte le emozioni, si manifesterà come una reazione psicosomatica, attraverso il pianto disperato e inconsolabile, ma più spesso con problemi nella sfera dell’alimentazione, del sonno, con comportamenti regressivi come succhiarsi il dito o bagnare il letto, tic, oppure con un calo delle difese immunitarie e la conseguente tendenza ad ammalarsi. Manifestazioni che non devono essere di per sé considerate patologiche, ma essere osservate nel loro evolversi. Fino a 4/5 anni il bambino non possiede il senso dell’irreversibile, il concetto di “per sempre” o “mai più”. Quindi potrà chiedersi quando torna la persona che è morta, dove è andata, interpreterà alla lettera le parole che siamo soliti usare per indicare la morte (se n’è andato...la scomparsa... ha concluso il suo viaggio...) con quel pensiero spietatamente logico che lo caratterizza. Il bambino a questa età vuole capire e coglie perfettamente le contraddizioni tra le parole e lo stato d’animo di chi gli sta intorno. Conosce inoltre l’esperienza della mancanza, ogni separazione è per lui una perdita da affrontare, per la quale ha iniziato ad attrezzarsi. Dopo questa età il bambino, in grado di comprendere il concetto di morte, può anche erigere difese quando sperimenta come un dolore insopportabile i sentimenti di nostalgia, disperazione, rabbia, senso di impotenza connessi al lutto. Così può passare da comportamenti esplosivi a momenti di isolamento e negazione, come se non fosse successo nulla.

Eleonora, 8 anni, urla con disperazione alla sua maestra “Ma perché proprio a me, perché la mia mamma, ma non devono morire prima i nonni, mi avete raccontato che si muore quando si è vecchi....” Inconsolabile piange a lungo fuori dall’aula, poi, all'intervallo va a giocare con i compagni.

Può tentare di “indurire” il suo cuore evitando di stabilire rapporti affettivi per non trovarsi a soffrire nuovamente. Questa difesa è spesso adottata dagli adolescenti, per i quali può essere molto destabilizzante avvertire così forte il dolore di una mancanza in un momento in cui cercano invece di raggiungere la loro autonomia. Passare dai sentimenti più strazianti a momenti in cui i bambini giocano dimentichi, sembra, del dolore non è un comportamento “insensibile”, è una difesa necessaria perché ognuno ha una sua personale capacità di tollerare l'esposizione al dolore e di affrontare la realtà. Non è da biasimare un bambino attratto dai giochi e dagli amici sebbene abbia perso una persona cara, ma nemmeno l'adulto che si accorge di provare fastidio, sconcerto, forse anche invidia di fronte alla capacità del piccolo di rimanere ancorato alla vita, cosa per lui molto più difficile. Solo riconoscendo questo sentimento si può lasciar andare il bambino senza, inconsapevolmente, trattenerlo nel dolore.

Aiutare il bambino, esperienza possibile

La fatica di parlare ai bambini della morte nasce dalla consapevolezza della loro vulnerabilità. Quando il lutto colpisce un bambino, è come se avvertissimo il rischio del crollo della sua fiducia di base: potrà ancora fidarsi di un adulto che non l’ha saputo proteggere dalla morte? Come farà a fare i conti con la perdita di quella idea di onnipotenza che i bambini attribuiscono ai genitori, spesso ben oltre l’età in cui la ragione suggerisce che nessuno in terra è onnipotente? È però proprio il senso di smarrimento, la non disponibilità a condividere il dolore che daranno al bambino la sensazione che l'adulto sia troppo debole, spaventato e quindi incapace di proteggerlo e aiutarlo. Quando la morte riguarda un familiare vicino, un genitore, un fratello, spesso il bambino sperimenta una doppia perdita. In questi casi l’evento arriva come un uragano a sconvolgere l’assetto di una famiglia. Il genitore superstite è gravato dal doppio compito di sopportare ed elaborare il proprio dolore e sostenere quello del figlio. Nessuno è mai pronto per questo, in particolare se si tratta del proprio figlio.

Marco ha 4 anni e mezzo quando muore il papà in un incidente, il fratello ne ha 11. La mamma, sconvolta dal dolore, fatica ad alzarsi dal letto, la famiglia viene accudita dai nonni. Lo incontro per una consultazione, sembra presentare una improvvisa regressione nel linguaggio; credo che la richiesta nasca soprattutto dal fatto che nessuno sa come parlargli. Marco inizia immediatamente a giocare, prende la famiglia, mette il padre nel punto più lontano della stanza con un’auto vicina. Poi prende la mamma, la lascia cadere per terra, la copre con un foglio e dice che è morta.

Il silenzio intorno ai sentimenti che l’evento luttuoso suscita lascia il bambino solo con emozioni difficili da governare e da comprendere, con una realtà che, proprio perché innominabile, si riempie di fantasie angosciose e di spiegazioni bizzarre. Marco, nel gioco, racconta la sua verità, cioè il sentire vicino a sé una mamma “morta”, una mamma non disponibile alla relazione. Non lasciare che il silenzio circondi la morte significa porsi in una disposizione d'animo rivolta all’ascolto profondo, allo stare insieme nel condividere la verità e il dolore che ne deriva, al permettere che parole e silenzi si riempiano di significato. Se un adulto amorevole si pone in ascolto, il bambino troverà il coraggio di fare domande, anche le più dolorose o strane, a cui è necessario che l’adulto risponda con sincerità, all’interno della visione familiare della vita e della morte, sia essa religiosa o atea. Affrontare il dolore non significa non averne paura, ma riconoscerlo come parte inevitabile della vita, e il soffrire come esperienza del tutto normale. Se l’adulto accetta di sentire il proprio dolore trasmetterà al bambino un messaggio di incalcolabile valore: l’universalità dell’esperienza, il suo essere, sebbene sconvolgente, condivisibile e alla fine superabile. Può essere utile trovare un momento intimo, che si ripeta ogni giorno, per stare con il bambino e parlare di quello che è successo, dei sentimenti che si provano, accogliendo le domande, senza forzarle. L’intimità e la complicità possono essere favorite dalla lettura di un libro, la visione di un film, che prestino parole quando non si è in grado di trovarne. Ricordare, quando il momento più acuto del dolore si è un po’ affievolito, le esperienze belle tra[1]scorse con chi non c’è più, rinsalda la forza di quel buono rimasto dentro di noi che può trasformare la pena in nostalgia. Non è solo una questione di ricordi: è un’esperienza sempre viva, presente, quello che siamo lo dobbiamo anche alla relazione con chi non c’è più.

Sabina Dal Pra' Nielsen

 Pubblicato sulla rivista Il Folletto 1/2021 - Istituto svizzero Media e Ragazzi ISMR

 

 

 Nonostante tutto il sapere psicologico e pedagogico che abbiamo costruito,

troviamo inaffrontabile il dolore della perdita,

soprattutto se è un bambino  a subirla,

e perdiamo le parole e la capacità empatica per stare accanto a chi soffre.

  

Come un campo lasciato a maggese

Semina il maggese quando la terra è ancora leggera;
rivoltalo a primavera: e l'estate, al suo ritorno,
non t'indurrà in inganno.
Il maggese protegge dai mali ed acquieta i fanciulli

Esiodo

 

In agricoltura il maggese è lo stato dei terreni che vengono messi a riposo per un certo tempo, ad esempio una stagione, perché possano ritrovare una ricca fertilità. Se un campo fosse coltivato continuamente perderebbe il nutrimento necessario alle piante. In questo tempo di riposo la terra si rigenera, sotto lo sguardo dell'agricoltore che non l'abbandona, ma se ne prende cura aspettando con pazienza il momento in cui potrà riprendere la semina.

Può sembrare strano parlare di campi lasciati a maggese oggi, in piena pandemia, mentre siamo privati di tutto ciò che conta per noi, della vicinanza, degli abbracci, del lavoro, della salute, della scuola, e, perché nasconderlo, anche delle meritate vacanze. 

Vorrei che i pensieri che condividerò vengano letti per quello che rappresentano, un particolare angolo di visuale sul problema, quello del nostro mondo interno, che naturalmente non sminuisce tutte le altre implicazioni reali e concrete di questo nostro difficilissimo periodo: quelle sanitarie prima di tutto, quelle economiche e politiche.

Siamo pieni di incertezze e di paure per il futuro, oscilliamo tra l'angoscia e la negazione, siamo arrabbiati, stiamo perdendo la fiducia e la speranza. I nostri eroi non sono più tali, li credevamo personaggi onnipotenti in camice, tuta e mascherina e invece stiamo scoprendo che sono uomini, capaci, coraggiosi, generosi, ma uomini. E allora ci arrabbiamo, li denigriamo, in modo inaccettabile. Anche gli scienziati ci hanno delusi, hanno a volte sbagliato, litigano tra di loro, ma soprattutto non sono onniscienti, non ci danno la certezza che si troverà il modo di sconfiggere il virus. Non ci hanno risparmiato il confronto con la nostra fragilità, con la insopportabile evidenza che l'umanità è tenuta in scacco da un essere infinitesimamente piccolo.

La nostra vita è cambiata in pochi giorni, la non prevedibilità, la non solidità della nostra esperienza è evidente, ci riguarda  da vicino. Chandra Livia Candiani (intervista a 7- marzo 2020) ci ricorda che "le catastrofi, le carestie, i terremoti, le guerre sono state per tanto tempo altrove. Il mito del controllo è crollato. La malattia e la morte sono qui, tra noi. Eppure si avverte la fretta, fretta che tutto passi, fretta di tornare al mondo di prima, come se niente fosse accaduto."

Intorno percepiamo nervosismo, rabbia, delusione, sentimenti spesso giustificati ma altrettanto spesso suscitati dal nostro non riuscire a tollerare quello che ci sta succedendo, per il troppo dolore, la troppo profonda angoscia, ma anche, spesso, per una nostra incapacità a fermarci, un nostro dibatterci scompostamente con la pretesa che "tutto torni come prima". Tutto:  il lavoro, la scuola, i negozi, ora il Natale, il Capodanno. E sì, abbiamo ragione! Abbiamo ragione rispetto al nostro modo solito di porci di fronte alla vita, siamo abituati ad affrontare le situazioni che ci si presentano cercando subito un modo per piegare la realtà al nostro volere, senza fermarci a pensare,  tollerare, aspettare fino a che il quadro si completi davanti a noi. E questa modalità, scelta come analgesico per  risolvere in fretta il dolore, in realtà ci porta a ritrovarlo continuamente sul nostro cammino.

La vita della società umana è composta da molteplici aspetti. La scienza ha lo scopo di scoprire, di trovare soluzioni, la politica di applicarle. A noi tutti il compito di collaborare alle soluzioni, anche quando, come oggi, la miglior collaborazione viene dall'accettare che non esiste una soluzione immediata e che quindi dobbiamo fermarci, sostare, saper-stare senza agire, con i dubbi e l'incertezza.

Il poeta John Keats definì capacità negativa  “… quella capacità che un uomo possiede se sa perseverare nelle incertezze attraverso i misteri e i dubbi , senza lasciarsi andare a un’agitata ricerca di fatti e ragioni.” Questo pensiero venne utilizzato dallo psicoanalista Bion per descrivere il suo modello psicoanalitico, che certamente non può essere qui riportato perché non è lo scopo di questo articolo. Possiamo però, anche se superficialmente, intendere un  invito all'analista - ma direi all'uomo - a saper stare nel dubbio e nella confusione,  a cercare di ascoltare e capire, ma anche non capire per non imboccare strade scontate, scegliere soluzioni buone per tutte le stagioni, trovate con la razionalità e non con la ricchezza del cuore, dell'immaginazione, senza lo stupore e la meraviglia  della scoperta.

Il silenzio, la solitudine, la forzata inattività per molti di noi possono essere molto difficili da tollerare. La realtà con cui dobbiamo confrontarci è così dura e angosciante da farci attivare difese spesso disfunzionali. E' difficile immaginare che rimanere in contatto con questi sentimenti sia una cosa utile e possibile, difficile credere che stare con la consapevolezza del dolore sia compatibile anche con il coltivare la speranza e con l'agire per rendere le cose migliori. Come in ogni lutto, fuggire la sofferenza rischia però di diventare una corsa continua, inseguiti e raggiunti dall'angoscia appena ci fermiamo. Ma scegliere consapevolmente di vivere la sofferenza è altro, ci permette di rimanere nel dolore il tempo necessario per comprendere che riusciamo a sopportarlo e a trovare vie uniche e creative per superarlo.

Credo che la sconvolgente  costatazione di un grado altissimo di indifferenza per il numero spaventoso di morti  sia in parte  da ascrivere davvero ad una incapacità di affrontare il dolore del lutto. Stiamo perdendo una generazione, quella degli anziani e dei cosiddetti grandi anziani, i nostri genitori, i nostri nonni. Possiamo inorridire davanti ai dissennati comportamenti di chi vuole andare a sciare o a fare l'aperitivo e possiamo anche, a ragione, pensare che in parte  sia dovuto a mancanza di umanità e di senso di responsabilità. Ma credo che se una così grande parte di persone si scopre cieca e sorda di fronte a quello che sta succedendo debbano esserci in atto meccanismi più profondi di negazione, di allontanamento dalla realtà e dal dolore, meccanismi individuali e sociali che debbono essere osservati con la massima attenzione.

Per tornare da dove siamo partiti, ai campi lasciati a maggese..... l’uomo come un campo, ha bisogno di un “tempo vuoto”, un tempo silenzioso, che rallenta, che permetta il contatto profondo con se stesso, per non esaurire le risorse interiori.

Questo tempo in cui  potersi  prendere cura di sé, ascoltarsi in profondità rallentando gli intensi ritmi delle attività quotidiane e delle relazioni con gli altri in questi mesi lo abbiamo avuto e probabilmente lo avremo ancora a lungo. Ciò che sembra, e veramente è, una limitazione può diventare una opportunità di conoscenza di sé, allenamento a frequentare la solitudine e comprendere le nostre emozioni e sentimenti, senza fuggire o esserne travolti. A patto di non cercare di riprodurre, nel chiuso delle nostre case, i ritmi di sempre, correndo da una attività all'altra, navigando per ore in Rete, o rimanendo al telefono senza interruzione.

Per l'equilibrio psicologico dell'essere umano è  vitale mantenere questo profondo contatto con il nucleo più profondo di sé, sede della nostra creatività e autenticità, poter dialogare con noi stessi senza ricercare continue stimolazioni provenienti dall'esterno.

Penso che molto spesso abbiamo trascinato anche i bambini e i ragazzi nel fare senza sosta, abbiamo proposto attività e stimoli continui nel timore che non rimanessero al passo rispetto alla corsa del mondo, o che si annoiassero se non continuamente impegnati in attività "ricreative"  o di apprendimento. Ci siamo scordati quanti pensieri creativi e nuovi sono figli della noia!

Per concludere vorrei riportare l' angolatura da cui osservare la nostra vita "chiusa"  che ci propone la poetessa Chandra Livia Candiani. Racconta di non considerare  questo tempo di fermo obbligato una «sospensione dalla vita», piuttosto il suo opposto, «quintessenza dell’osservazione di cosa sto facendo della mia esistenza, del mio pensiero, del mio tempo, di quello che conta e di quello che è superfluo, delle relazioni buone e di quelle che non nutrono o fanno danno. Di come ricevo il mondo e di cosa gli porto in dono».

 

Sabina Dal Pra' Nielsen

 

 

                Andreuccetti Alessandro - Campi a maggese

 

 

 

L’uomo come un campo, ha bisogno di un “tempo vuoto”,
un tempo silenzioso, che rallenta,
che permetta il contatto profondo con se stesso,
per non esaurire le risorse interiori.
Per l'equilibrio psicologico dell'essere umano
è vitale mantenere questo profondo contatto con il nucleo più profondo di sé,
sede della nostra creatività e autenticità,
poter dialogare con noi stessi senza ricercare continue stimolazioni provenienti dall'esterno.

  

Vi prego: volgete la vostra attenzione a ciò che vi indico: il bambino

 Nei 150 anni dalla nascita di Maria Montessori

 

 Nata a Chiaravalle, Ancona, il 31 agosto 1870, Maria Montessori si trasferisce ancora piccola a Roma dove completa gli studi laureandosi nel 1896 con una tesi sperimentale in psichiatria. Se non è la prima donna medico italiana è la prima a dedicarsi alla professione.

Durante gli studi universitari si interessa alla pediatria ed alla psichiatria fino a diventare assistente alla Clinica psichiatrica universitaria di Roma dove si dedica ai bambini con deficit mentali.

Montessori, che ha vissuto duramente nel periodo universitario l’antagonismo con i colleghi maschi, la rigida morale del tempo che considerava disdicevole per una donna occuparsi di ciò che non fosse frivolezza o attività strettamente legate alla vita familiare, nel settembre del 1896 parla al Congresso Internazionale di Berlino dei diritti delle donne e nel giugno 1899 si reca a Londra per denunciare di nuovo la difficile condizione femminile e il lavoro minorile.

Viaggiando attraverso l’Europa ha l’occasione per osservare e valutare varie esperienze educative e pedagogiche proposte a bambini  svantaggiati. In particolare approfondisce gli studi di J.M. Itard (che studiò il bambino selvaggio dell’Aveyron) ed il lavoro di E. Seguin entrambi entrati in contatto con le difficoltà dell’apprendimento infantile attraverso un rapporto educativo piuttosto che con un intervento medico. Proprio da questi studiosi Montessori scopre l’educazione sensoriale, nei particolari di contrasti e gradazioni e cerca di costruire oggetti concreti che possano suscitare interesse in quelle piccole menti fragili per rendere loro possibile le acquisizioni di base. Non si trattava più quindi di fare diagnosi sui vari disturbi mentali, ma di preparare un ambiente e dei materiali che potessero sviluppare le capacità dei bambini per facilitare il loro percorso di apprendimento.

Su questi criteri Montessori imposta il proprio lavoro con i bambini del manicomio e dopo due anni di intenso impegno un gruppo di loro riuscirà a conseguire la licenza elementare.

Questo successo la spingerà a riflettere a fondo sullo “spreco dell’infanzia” operato sui bambini svantaggiati e di conseguenza anche sui “normali”, inizierà così ad occuparsi anche di piccoli bambini “sani”.

Il 6 gennaio 1907 in via dei Marsi 58 a Roma viene inaugurata una piccola costruzione detta “casa socializzata” all’interno di un grande cortile, circondato da nuove case popolari, che accoglierà i piccoli che abitano lì per alleviare, sostenere e migliorare il lavoro educativo delle madri.

Montessori prepara un ambiente arredato a misura comoda ed agevole per i piccoli bambini e via via aggiungerà mensole su cui verranno messi a disposizione e in ordine oggetti, materiali e piccoli tappeti per “lavorare” anche a terra.

“Preparare l’ambiente ed osservare”, questa la consegna richiesta alla persona che l’aiuta nella nuova esperienza, che come lei non è una maestra “impostata”. Candida Nuccitelli infatti è la figlia del portiere e con precisione e sincerità riferirà alla dottoressa come si comportano i bambini in quell’ambiente, come scelgono le attività, come amano pulire e riordinare, come riescono anche ad aiutarsi vicendevolmente senza l’imposizione dell’adulto.

In questo luogo, un “laboratorio”, emergerà un bambino “nuovo”, dai “caratteri psichici insospettati” che sa scegliere l’attività, riordinare gli oggetti, che sa concentrarsi, che vede i propri errori e li affronta per correggersi.

Montessori nel tempo continua ad osservare i bambini in azione e pensa e progetta risposte ai loro bisogni e ai loro interessi; il suo è un modo di educare, di insegnare innovativo, opposto a chi progetta in base ad un’idea propria.

La proposta pedagogico-didattica della Montessori si diffonde rapidamente così come le “Case” per i piccoli bambini fino ai 6 anni. Tra il 1910 ed il 1913 viene promossa la continuazione dell’esperienza nelle classi elementari e il risultato del lavoro svolto viene presentato in un corso internazionale ad un numeroso gruppo di allievi insegnanti giunti da tutto il mondo. Da qui l’apertura di numerose scuole in Italia e nel Mondo.

La dottoressa, che ormai ha rinunciato al lavoro universitario, viene invitata ovunque a tenere conferenze e corsi di specializzazione accolta come la “liberatrice dell’infanzia”. Sempre più numerosi saranno gli adulti preparati da lei che nell’affrontare l’insegnamento abbandonano la logica del giudizio e la linea di una didattica rigida, a favore di un lavoro autonomo dei bambini, possibile realtà in un ambiente preparato che consente la “libera scelta”.

Ecco che allora le scuole si trasformano in laboratori di ricerca, di attività interessanti, di concentrazione, dove è possibile la ripetizione spontanea, luoghi di scambio e di socializzazione, unica via a quella che Montessori chiamerà “normalizzazione individuale” che conduce all’obiettivo finale che lei stessa definirà “società per coesione”.

La Montessori definisce “normalizzazione” il processo attraverso il quale il bambino viene messo in condizione di poter manifestare sè stesso, sostenuto nelle sue esigenze di crescita legate alla sua particolare forma mentale ed alla sua emotività.

Nel difficile clima che precede la seconda guerra mondiale, attanagliata dalle pericolose nascenti dittature, la Montessori parla, ovunque si trovi, di Pace e dell’importanza, fin dai primi anni, della diffusione di una Educazione alla Pace.

“Io credo che mai la società umana abbia vissuto sotto minacce come quelle del tempo presente. Per questo è urgente un appello per riflettere su ciò che realmente sono libertà e dignità umane. Durante tutta la mia vita ho proclamato la necessità della libertà di scelta, dell’indipendenza di pensiero e della dignità umana. Tuttavia ritengo che la vera libertà, quella interiore, non possa essere donata. Non può nemmeno essere conquistata. Può solamente essere costruita, dentro di sé, come parte della personalità e, se questo avviene, non potrà più essere perduta”.

Nel 1939 accetta di recarsi in India per organizzare un corso di specializzazione invitata da un gruppo di teosofi anglo-indiani, aperto a tutte le religioni che diffonde la non violenza ed il rispetto per tutti gli esseri umani.

In Europa è scoppiata la guerra per cui la Montessori è formalmente prigioniera degli Inglesi che comunque le permettono di continuare a lavorare e ad insegnare: proprio in quei luoghi la dottoressa comprende appieno come la realtà dell’infanzia non ha confini né differenze.

In India sviluppa l’idea di un percorso di “Educazione cosmica”, tema di altissima lungimiranza e modernità, che propone studi precisi sulla natura e sugli ambienti e sviluppa l’idea di un “compito cosmico” di ogni specie e di “interdipendenza” tra esseri viventi e non viventi, di “servizio alla vita”, temi che suscitano grande interesse a partire da sette anni.

Rientra in Europa a guerra finita, accolta ovunque con interesse ed onore. Torna successivamente in India e viaggia ancora sia in Italia sia all’estero. Il 6 maggio 1952 a Noordxjik, in Olanda, lascia la vita terrena.

In chiusura al Congresso di Londra del 1951 ribadisce a chi la applaude il suo pensiero più profondo: “Vi prego: il più grande onore e la maggior gratitudine che potete darmi è di volgere la vostra attenzione a ciò che vi indico: il bambino”

Doretta Monti

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La Montessori prepara un ambiente arredato a misura  agevole e comoda per i piccoli bambini.

Via via aggiungerà mensole su cui verranno messi a disposizione e in ordine

oggetti, materiali e piccoli tappeti per "lavorare" anche a terra.

In questo luogo, un "laboratorio", emergerà un bambino nuovo,

dai caratteri psichici insospettati,

che sa scegliere l'attività,

riordinare gli oggetti,

che sa concentrarsi,

che vede i propri errori e li affronta per correggersi.




 

Andrà tutto bene... Falso conforto o vero sostegno?

Relazione presentata ai genitori dell'Istituto Santa Maria Assunta

12 Maggio 2020

Mi accingo a consegnarvi qualche piccola riflessione necessariamente ambivalente e provvisoria. Questa provvisorietà, direi benedetta in questo caso, ci ha portati già a grandi cambiamenti dal momento in cui è stato programmato l'incontro a quello in cui, per sopperire alla pessima connessione della serata, vi propongo per iscritto i temi trattati.

Il titolo, sebbene un pò modificato, nasce da uno scritto che è stato pubblicato sul nostro sito, in cui proponevo alcune riflessioni sulle oscillazioni che ognuno di noi sperimenta, tra negare l'evidenza della gravità della situazione, illudersi, arrabbiarsi e infine trovare un modo in cui i nostri sentimenti ed emozioni possano convivere con una vera speranza.
Ecco quindi per punti, le mie riflessioni.

 

I CAMBIAMENTI

Vorrei iniziare con un pensiero sul cambiamento e sulla necessità di tenerlo ben presente, di non fingere che tutto "sia come prima".
Nella nostra vita quasi tutti gli aspetti della quotidianità hanno subito importanti cambiamenti e questo vale anche per i nostri bambini: non si può uscire, non si frequentano la scuola, i compagni, le attività sportive, il catechismo. In moltissime famiglie mamma e papà sono quasi sempre a casa, non si vedono più i nonni, gli zii, la routine che tanto aiuta a dare un ritmo alla giornata è sottosopra, bisogna inventarne un'altra.
Ma esistono cambiamenti meno palesi eppure altrettanto disorientanti. Pensiamo all'uso delle tecnologie e alle moltissime riflessioni che negli anni ci sono state proposte. Fino a ieri siamo stati allertati da articoli, conferenze, trasmissioni volte a creare la consapevolezza di quanto la tecnologia ci stesse dominando. Molte ricerche affidabili ci hanno mostrato quali danni sulla crescita emotiva e fisica dei nostri figli causasse l'uso eccessivo delle tecnologie, l'abuso dei videogiochi, degli smartphone, anche della televisione. Oggi viviamo, lavoriamo, comunichiamo, facciamo scuola, ci aggiorniamo quasi esclusivamente attraverso le tecnologie. Ieri ripetevamo incessantemente ai nostri figli " Smettila con questo videogioco, esci un pochino!", oggi, purchè non escano, siamo disposti, per necessità, a permettere lunghe ore davanti al PC o ad altre strumenti per i videogiochi.
Credo però che in questo improvviso capovolgimento di prospettiva una cosa sia davvero importante e positiva, l'aver imparato a utilizzare la tecnologia sotto la spinta di un reale bisogno di comunicazione e non al posto della comunicazione.

 

LA SCUOLA

Secondo me la maggior parte degli insegnanti hanno fatto miracoli, imparando in breve tempo ad usare la didattica a distanza e attingendo a tutta la loro creatività. Questo non impedisce che, soprattutto all'inizio e per i più piccoli, il genitore si sia dovuto inventare insegnante. Questa sovrapposizione può facilmente ingenerare nei bambini confusione e anche una sorta di regressione. L'avere adulti diversi a cui riferirsi favorisce la crescita, il cammino verso l'autonomia, la capacità di godere anche di uno spazio di vita fuori dallo stretto rapporto con la mamma, cosa che i bambini sentono quasi sempre come una conquista importante. Quindi, comunque, benvenuta la scuola anche se a distanza e i contatti attraverso videochiamate con gli amici, e con i compagni.
Scrive Maria Petitti, cofondatrice de La Stanza Blu, in un post sulla pagina facebook: "All’inizio tutti abbiamo pensato a delle vacanze di carnevale allungate… Nei primi giorni nessuno si è preoccupato, si pensava che il tempo perso si sarebbe presto recuperato e che lo svolgimento del programma sarebbe stato comunque salvo. Ma poi in tutte le scuole si sono attivati gli insegnamenti online, sempre più articolati, secondo la creatività degli insegnanti. Ma i più in difficoltà sono certo i genitori, soprattutto quelli con i figli alle elementari, che sono stati improvvisamente catapultati nella professione di insegnanti, che per la maggior parte dei casi non è la loro. Eppure hanno cominciato a ricevere valanghe di schede da far eseguire ai propri figli, che hanno reagito in modi diversi, ma spesso non di facile gestione. La maestra non faceva così... Adesso non ho voglia, li faccio dopo... Non capisco, non riesco... Uffa... e via dicendo. Ma soprattutto, l’ansia che serpeggia sotterranea è: alla fine dell’anno chi sarà valutato, i bambini o i loro genitori? Vorrei partire dalla considerazione che non ci possiamo illudere che nell’apprendimento si possa rincorrere una sorta di normalità... ogni maestro sa benissimo che, quando torneremo a scuola, bisognerà partire da quello che ogni bambino è riuscito ad interiorizzare, a seconda delle sue capacità e della situazione emotiva che ha vissuto in questo tempo. Perciò genitori tranquilli, non siete sotto la lente d’ingrandimento, anzi, state già facendo miracoli. In questo tempo di distanziamento sociale però una cosa è diventata di un’evidenza innegabile: si può imparare solo all’interno di un rapporto. È l’insegnante che veicola l’apprendimento che lo studente fa suo perché vuole bene alla maestra. Mancando il rapporto diretto tantissimi bambini si sono sentiti demotivati o improvvisamente non hanno più imparato con la capacità che li caratterizzava Gli
insegnanti stanno mettendo in gioco la loro professionalità per limitare il più possibile questa privazione... anche se niente può sopperire al rapporto diretto e fisico. In questa situazione cosa possono fare i genitori? Certo mantenere una regolarità come tempo dedicato allo studio all’interno della giornata, perché questo aiuta a tenere degli argini all’incertezza e poi... divertirsi quando fanno i compiti con i loro figli, non lasciarsi prendere dall’ansia di prestazione, non misurare la performance, ma fargli capire che sono dalla loro parte, che fanno il tifo per loro!"

 

NOI, COME CI SENTIAMO? 
Prima di proporre qualche soluzione pratica vorrei soffermarmi sull'impatto emotivo che questi cambiamenti hanno avuto su di noi e quindi anche sulle nostre angosce,
Anche chi riesce a mantenere un atteggiamento fiducioso e positivo sperimenta qualcosa che nel profondo lo inquieta. Stiamo attraversando un'esperienza che ricorda le fasi dell'elaborazione del lutto: negazione, rabbia, venire a patti, depressione, accettazione.
Ognuno di noi si trova in uno di questi momenti, certamente tutti, compresi i capi di governo del mondo intero, siamo passati dalla negazione e dalla rabbia.
Nell'articolo a cui si ispira questa serata, Andrà tutto bene, mi chiedevo cosa succeda nelle famiglie, dove i nostri figli ci vedono preoccupati, a volte arrabbiati, ci sentono parlare del lavoro, che forse non ci sarà più, di crisi economica, di morti, di persone che si sono ammalate… Perché non possiamo evitare di esporli a queste notizie, nella vita che stiamo conducendo, tutti in casa, nonostante le nostre attenzioni e precauzioni… Ma quand'anche ci riuscissimo, sappiamo che i bambini sono spugne, assorbono conoscenze e emozioni senza che ce ne accorgiamo. Sono in grado di intercettare, con i loro sofisticatissimi radar, i nostri stati d'animo, i nostri sentimenti ed emozioni, ad un livello profondo, che passa dal corpo, dalle fantasie, dai sogni e approda nelle paure.
Mai come ora abbiamo tutti dovuto confrontaci con la precarietà, la vulnerabilità, la fragilità e questo, per una umanità che ha fatto di tutto per cancellare dalla propria mente
queste caratteristiche, è un colpo difficile da assorbire.
Allora all'inizio si è avviato il tam tam del ANDRÀ TUTTO BENE... con gli arcobaleni...
Forse in un tentativo di chiamare a noi la pace, o forse, ricordando che l'arcobaleno ha, nella storia delle religioni, un significato più profondo di collegamento tra Cielo e Terra...
Ma perchè farlo disegnare ai bambini? Perchè porre sulle loro spalle un peso e un compito che è precipuo degli adulti?

Quali le nostre angosce? Posso riassumere per grandi capitoli quelle che traspaiono dalle persone che si rivolgono al nostro Sportello, dai pazienti che continuo a seguire, dai confronti sempre più frequenti con i colleghi e dalle molte persone con cui parlo.
Ma vorrei farlo attraverso le angosce dei bambini, che ci vengono raccontate dai genitori. Una delle segnalazioni più frequenti riguarda i problemi di sonno in bambini che prima riposavano bene. Bambini anche molto piccoli, di 6 mesi, 1 anno e mezzo, 2 e 3 anni, si svegliano angosciati nel cuore della notte e faticano ad addormentarsi. Un'altra fascia di età che presenta particolari fatiche è quella degli adolescenti, dai 14 ai 18 anni. Abbiamo ascoltato genitori di ragazzi che hanno smesso di studiare, anche se si avviano alla maturità. Per loro è fondamentale il contatto quotidiano con i coetanei, contatto che svolge molteplici funzioni, soprattutto sostiene la crescita, il processo di progressiva autonomia dai genitori. Inoltre, essendo l'adolescenza - e oggi anche la preadolescenza - un periodo caratterizzato da conflitti con i genitori, la condivisione con i coetanei di questi aspetti conforta il ragazzo e lo fa sentire meno solo di fronte ai forti sentimenti di rabbia, dolore e paura. Le limitazioni attuali ovviamente sottraggono questa fonte di conforto e di sfogo e favoriscono un riversarsi all'interno della famiglia di tutte le emozioni non digerite.
Se si approfondisce però appena sotto la superficie la situazione delle famiglie dove i figli mostrano questi disagi allora si comprendono cose importanti: la mamma del bambino più piccolo, 6 mesi, che piange inconsolabilmente, è un medico che sta tornando al lavoro in un ospedale di una zona molto colpita dal Covid 19; i genitori del bambino di 3 anni sono molto angosciati per la sorte dei nonni in una RSA; il papà di un adolescente che non studia ha perso il lavoro.
I bambini dell'età della scuola elementare risentono soprattutto della fatica dell'apprendere a distanza, a volte sono "bravi", qualche volta troppo bravi. A questo occorre prestare attenzione perchè potrebbe essere il segnale di un sottile stato di tristezza e rinuncia.
Incontriamo poi una categoria di bambini e ragazzi che sembrano star bene in questa situazione di ritiro "autorizzato". Sono quelli che faticano nelle relazioni con i pari e che ora, dopo un periodo di quiete, si sentono angosciati all'idea del poter di nuovo uscire provano paura, ansia, un senso di minaccia.
I disegni dei bambini hanno spesso qualcosa che rimanda ai mostri e a delle corone; ad esempio un bambino molto appassionato di calcio mi propone disegni in cui la superficie del pallone è cosparsa di coroncine. i bambini ci parlano così, attraverso le immagini, le paure, o le domande camuffate.
I bambini possono anche essere difficili, richiedere tutta la nostra autorevolezza e capacità di porre dei limiti. Oggi è difficile più che mai leggere il capriccio come tale o come manifestazione di angoscia, di paura, di ricerca di rassicurazione e di ricerca del limite.
Spesso diventiamo ostaggi della condizione di genitore ideale che provvede a tutto, che cerca di preservare i figli dal dolore, ma con questo ci esauriamo ed entriamo in una escalation di frustrazione, rabbia o scoraggiamento.
La funzione genitoriale che prevede lo scarto educativo, che non si sia compagni di gioco, seppure si giochi insieme, non può appiattirsi sull'uguaglianza, altrimenti si rischia il ribaltamento. Se i genitori fanno troppo per i figli finisce che i figli non fanno abbastanza per se stessi...chiunque può insegnare a fare, solo il genitore può insegnare a fare senza È il regalo preziosissimo dei NO. E vale, con buon senso e sensibilità, anche ora.
Le fiabe, i miti e spesso anche i grandi cartoni animati ci possono guidare nella comprensione dei fatti della vita. Ho parlato altrove del Re Leone come esempio di padre che sa offrire gli insegnamenti fondamentali per affrontare la vita con coraggio, responsabilità e speranza. Mufasa mostra al piccolo Simba la grandezza del suo compito, ma gli ricorda anche l'impegno che lo attende, la tutela dell'equilibrio della natura. Il "cerchio della vita" è il ciclo dell’esistenza di tutti gli esseri viventi, che presuppone la piena accettazione del mistero della vita, fatto di nascita, crescita e morte. Nel delicato equilibrio del mondo, natura ed esseri viventi diventano un insieme inscindibile, connessi soltanto da un filo sottile che va custodito e tutelato nel rispetto di tutte le forme di vita. Mai come ora abbiamo bisogno di padri, di adulti che si assumano questa responsabilità e la insegnino alle nuove generazioni. E che sappiano infondere speranza ed entusiasmo verso il futuro, perché, naturalmente, noi lasceremo il mondo ai nostri figli e sarà decisivo per il futuro dell'umanità, che possano accogliere questo passaggio con speranza ed entusiasmo e responsabilità.

ANDRÀ TUTTO BENE. Torniamo qui, a questa previsione che non eravamo in grado di fare, potevamo solo sperarlo. Non lo sapevamo e proporlo come certezza era ingannevole. Non è certo mia intenzione alimentare il pessimismo, ma un ottimismo vero, che nasca dalla realtà e dalle nostre paure. Non è andato tutto bene e non possiamo certo prevedere se il futuro sarà roseo, per la verità ne dubitiamo. Avere un atteggiamento ottimistico a tutti i costisignifica non permettere alle ansie e alle giuste preoccupazioni dei nostri figli di entrarci dentro ed essere assorbite ed accolte da noi.

È come dire ai nostri figli di questo non si può parlare - argomento tabù. Abbiamo a che fare con un mostro gigantesco e per di più invisibile...difficile pensare di non aver paura...
Scrive una collega "...faccio fatica a immaginare che Davide sia entrato in contatto con il gigante Golia illudendosi che sarebbe andato tutto bene e che, nello sforzo umano di combattere il mostro, non abbia tratto la forza e il coraggio proprio dalle sue profonde paure verso quella terribile bestia.
Non sappiamo esattamente come sia andata quel giorno, ma resta il fatto che Davide non compie illusorie prodezze per combattere il gigante, offre, al contrario, la forza della sua umanità, sceglie un semplice gesto umano".
Da dove nascono la forza e l’ingegno se non da una profonda consapevolezza dei nostri limiti e delle nostre fragilità?
Certo non è il pessimismo la via, ma il realismo a misura di bambino e anche di adulto. Abbiamo scoperto molte cose buone in questo periodo. Ci siamo scoperti creativi, solidali, capaci di reinventarci modi di lavorare e di stare in contatto. Ognuno ha trovato un ambito in cui esprimersi: la cucina, la musica, il giardinaggio, la scrittura, il lavoro a maglia. Molti ci hanno fatto sorridere con messaggi divertenti e ironici, ci hanno consolato con canzoni e poesie di dolore e speranza. Credo che tutta questa ricchezza sia sempre stata un nostro patrimonio, solo che, sommersi dalle corse quotidiane, non potevamo lasciarle spazio.
Forse si tratta di qualcosa che abbiamo sempre avuto sotto gli occhi e non vedevamo: guardare non significa vedere. Spesso non riusciamo ad attribuire il vero valore a cose ed esperienze perchè condizionati dal contesto. Tempo fa circolava un video girato da un giornalista del Washington Post. All'ora di punta un uomo in jeans e berretto da baseball suona per quasi un'ora il violino in una stazione della metropolitana. Praticamente ignorato dai passanti, racimola solo qualche spicciolo. Il violinista era Joshua Bell, uno dei più grandi al mondo, che pochi giorni prima aveva suonato le stesse melodie alla Symphony Hall di Boston, dove il biglietto più economico costava 100 dollari.
Potrà andare tutto bene, ma in che modo?

 

 
Andrà tutto bene sono le parole che la mamma o il papà rivolge al bambino che accompagna dal dottore, che affronta il primo giorno di scuola, che per la prima volta esce da solo per raggiungere l'amico, che si avvia alla sua prima partita.

Andrà tutto bene è l'incoraggiamento che il figlio rivolge al padre che entra in ospedale, dell'amico vicino al momento dell'esame, della moglie al marito prima del colloquio di lavoro, dei genitori che salutano il figlio che emigra.

Andrà tutto bene perché, se anche non sarà così, loro ci saranno, saranno al fianco di chi deve riprendersi, ritentare, asciugheranno le lacrime e continueranno ad amare.

Andrà tutto bene non perché possiamo garantire il futuro, ma perché possiamo garantire che saremo lì, comunque.

 

 

SUGGERIMENTI


All'inizio ho detto che avremo anche dato spazio a qualche suggerimento pratico. Potrete trovare nella nostra pagina facebook suggerimenti dell'Unicef, del OPL, del dr. Pellai, storie che aiutano i bambini ad affrontare il "mostro" e i genitori a parlarne.
Quello che dirò si ispira a queste proposte, soprattutto a quella di Psicologi per i Popoli del Lazio, che mi sembra molto ben articolata. Per punti i suggerimenti.


1) Fare domande esplicite e ascoltare
Inizia incoraggiando tuo figlio a parlare dell'argomento. Cerca di capire quanto ne sia già a conoscenza e orientati in base a questo. Se il bambino è particolarmente piccolo e sa poco della pandemia, non occorre necessariamente sollevare la questione: puoi semplicemente cogliere l’occasione per ricordargli/le di praticare una corretta igiene personale, senza innescare nuovi timori.
Assicurati che sia consapevole di trovarsi in un ambiente protetto e di poter parlare liberamente. Disegnare, raccontare storie ed altre attività possono aiutare ad aprire la discussione. È importante però non minimizzare e ascoltare le sue preoccupazioni.
Assicurati di riconoscere le sue emozioni e rassicuralo sul fatto che è naturale essere spaventati da situazioni di questo genere. Riconoscere e legittimare ogni emozione, far capire che non ci sono emozioni giuste o sbagliate e che è normale sentirsi impauriti, tristi o arrabbiati;
Evitare frasi di uso comune come “Non pensarci”, “Non avere paura”, “Non piangere”, “Arrabbiarsi non serve a nulla”, “Cerca di essere forte”, poiché, invece di avere un effetto positivo, vanno ad ostacolare l’espressione del disagio e delle emozioni
Dimostragli che lo ascolti, offrendo la tua piena attenzione, e fai in modo che sia ben cosciente di poter parlare con te e con i suoi insegnanti, qualora lo desideri.

 

2) Essere sinceri
Spiega la verità in un modo "a misura di bambino". I bambini hanno il diritto di essere adeguatamente informati su ciò che avviene nel mondo e, allo stesso tempo, è responsabilità degli adulti proteggerli dall'angoscia.
È quindi opportuno usare un linguaggio appropriato rispetto alla sua età, osservarne le modalità di reazione ed essere sensibili al livello di ansia raggiunto.
Se non sei in grado di rispondere alle sue domande, non improvvisare. Piuttosto, sfrutta questa occasione per cercare insieme a lui/lei delle risposte.
I siti di organizzazioni internazionali come UNICEF o Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) sono ottime fonti di informazione
Spiega a tuo figlio/a che non tutte le informazioni reperibili su Internet sono corrette, e che la cosa migliore è affidarsi a quello che dicono gli esperti.

 

3) Insegna come proteggere se stessi e i propri amici
Uno dei modi più efficaci per proteggere i bambini dal contrarre il coronavirus (e altre malattie infettive) è semplicemente invitarli a lavarsi le mani regolarmente.
Non occorre attivare una conversazione che lo spaventi. Spiegagli che è meglio non avvicinarsi troppo a persone che mostrano sintomi come tosse o raffreddore, e chiedigli di comunicare immediatamente qualora dovesse iniziare a percepire febbre, tosse o qualche difficoltà a respirare.

 

4) Offri rassicurazione
Vedendo costantemente immagini preoccupanti in TV o sul web, può capitare di avere la percezione che la minaccia sia presente ovunque intorno a noi.
I bambini possono non essere in grado di distinguere la realtà virtuale dalla realtà fattuale, e quindi credere di trovarsi in una condizione di pericolo imminente.
Puoi aiutare tuo figlio a gestire lo stress offrendogli l’opportunità di rilassarsi e giocare, quando possibile.
Cerca di mantenere il più possibile invariata la sua routine quotidiana, in particolare prima di andare a dormire, o aiutarlo/a a creare nuove routine nel suo ambiente domestico.
Se vivi in una "zona rossa" ricorda a tuo figlio/a che restando in casa ha scarsissime probabilità di contrarre il virus, che molte persone che lo hanno contratto non si ammalano gravemente, e che molti adulti stanno lavorando strenuamente per proteggere la tua famiglia.
Se si sente poco bene, spiegagli che è importante rimanere a casa - o eventualmente recarsi in ospedale - per il suo bene e quello dei suoi amici.
Rassicuralo sul fatto che sai benissimo quanto rimanere in casa possa essere difficile, a volte noioso e stressante, ma che attenersi alle regole è l’unico modo per mantenerci tutti al sicuro.

 

5) Assicurati che non sia vittima (o artefice) di stigmatizzazione
Questa pandemia ha causato numerosi casi di discriminazione razziale in tutto il mondo, quindi è importante assicurarsi che i propri figli né la subiscano né contribuiscano ad azionidi bullismo e cyberbullismo.
Spiega loro che il coronavirus non ha nulla a che fare con l’aspetto di una persona, il suo paese di provenienza o la lingua che parla.
Se sono stati insultati o bullizzati a scuola, devono sentirsi a proprio agio nel confidarsi con un adulto di cui si fidano.

 

6) Cercare aiuto
È importante che i bambini sappiano che le persone si aiutano reciprocamente con atti di bontà e generosità.
Condividi con loro le storie di operatori sanitari, scienziati e giovani, tra gli altri, che lavorano senza sosta per fermare l’epidemia e mantenere il più possibile al sicuro la comunità.
Può essere di grande conforto per loro sapere che là fuori ci sono persone compassionevoli che stanno occupandosi della nostra salute e del nostro benessere.

 

7) Prendersi cura di sé
Puoi aiutare meglio i tuoi figli nel momento in cui sei in grado, prima di tutto tu stesso, di gestire la situazione.
I bambini captano le tue reazioni alle notizie, pertanto è di grande aiuto per loro poter constatare che sei calmo e in controllo.
Se sei in uno stato di ansia o preoccupazione, prendi del tempo per te stesso e contatta altri membri della famiglia, amici o persone fidate della tua comunità. Prenditi del tempo per fare cose che ti aiutino a rilassarti e recuperare le forze.
Fare affidamento sui gruppi di supporto sociale e sulle istituzioni; ad esempio sono stati istituiti degli sportelli d'ascolto ai quali le persone possono rivolgersi in maniera gratuita per qualsiasi dubbio, necessità di indicazione, supporto di tipo psicologico e psicoeducativo.

 

8) Chiudere le conversazioni con cura
È importante sapere che in questi casi, non stiamo abbandonando i nostri figli in una condizione di angoscia.
Se la conversazione diventa particolarmente complessa e difficile da gestire, cerca di misurare il loro livello di ansia osservando il linguaggio del corpo e l’andamento del respiro, o valutando se il loro tono di voce è lo stesso di sempre.
Ricorda ai tuoi figli che possono intraprendere conversazioni difficili con te in qualsiasi momento. Ricorda loro che sei interessato al loro punto di vista, li ascolti e che sei a disposizione qualora siano preoccupati.

 

9) Curare la quotidianità. Coinvolgere i bambini nelle attività quotidiane dando loro dei compiti semplici, ma che li facciano sentire utili e importanti, usando anche creatività e fantasia. Leggere insieme, disegnare, usare la manualità, ballare, inventare storie e recitare.
Proporre per i più piccoli in maniera giocosa attività che possano favorire il rilassamento psico-fisico, come ad esempio fare il bagnetto o la doccia concentrandosi sulle sensazioni tattili e olfattive.
Alternare momenti rilassanti ad attività motoria e ludica, proponendo esercizi fisici e divertenti.

Vorrei chiudere con le parole di Murakami, tratte dal suo romanzo Kafka sulla spiaggia, perchè mi sembra si adattino a uno sguardo di speranza e che ci parlino del "dopo".

 

 

Poi, quando la tempesta sarà finita, probabilmente non saprai neanche tu come hai fatto ad attraversarla e a uscirne vivo.

Anzi, non sarai neanche sicuro se sia finita per davvero. Ma su un punto non c’è dubbio.

Ed è che tu, uscito da quel vento, non sarai lo stesso che vi era entrato.

Sì, questo è il significato di quella tempesta di sabbia

(Murakami, 2002).




Bibliografia 

Sonno dei bambini

https://www.facebook.com/2275439729352484/posts/2747882858774833/?sfnsn=scwspmo&extid=MXDMFEEKw4KcHQjG

 

Psicologi per i Popoli - Lazio

https://www.facebook.com/2275439729352484/posts/2707357699494016/?sfnsn=scwspmo&extid=MmS Wo5rIYhNOiWqr

 

Genitori-insegnanti

https://www.facebook.com/2275439729352484/posts/2710671052496014/?sfnsn=scwspmo&extid=6eVYLBGck2xi4KaO

 

Spiegare il cornavirus ai bambini

https://www.facebook.com/2275439729352484/posts/2729473303949122/?sfnsn=scwspmo&extid=AcGjX v0WD1dv66Cd

 

Nascere sicuri

https://www.facebook.com/2275439729352484/posts/2741504399412679/?sfnsn=scwspmo&extid=GOP5wVsB7oKU78lP

 

Pensieri sulla riapertura

https://www.facebook.com/2275439729352484/posts/2751708725058913/?sfnsn=scwspmo&extid=rQW5 dMsFJcoNoeK1

 

Separazione dei genitori 

https://www.lastanzablu.com/sguardi/per-riflettere-insieme/138-quando-mamma-e-papa-non-si-vogliono-piu-bene

  

La funzione del padre al tempo del coronavirus 

https://www.lastanzablu.com/sguardi/per-riflettere-insieme/140-il-re-leone-i-padri-al-tempo-del-coronavirus-6

 

 

Sabina Dal Pra' Nielsen 

Andrà tutto bene... Tra disperazione, negazione e speranza

Andrà tutto bene.....

Confesso di provare, in ognuna delle decine di volte al giorno in cui mi trovo "visitata", come noi tutti, da messaggi che inneggiano a questa speranza, da lenzuola dipinte che urlano una previsione che non possiamo fare, una sorta di fastidio, di desiderio di sentire altro, non so bene nemmeno io cosa. Mi sembra sottenda una profonda negazione, un non voler guardare la realtà per quella che è, dura, carica di ansie, disorientante e spesso sconvolgente.

 

 

Joan Mirò, Blue II, 1961

 


Andrà tutto bene...

La mia collega B. ha 38.5 di febbre da 3 giorni, il suo medico di base la ascolta telefonicamente. Deve solo aspettare e assumere la Tachipirina. Mi verrebbe voglia di urlare: "aspettare cosa?"

S. ha perso il marito, non ha potuto salutarlo, né stargli vicino perché lei pure è ricoverata. Hanno due figli adolescenti. La signora P., 95 anni, è a casa da sola, confusa e un po' spaventata. La badante che la seguiva, non essendo in regola, non può più occuparsi di lei.

Si muore da soli, una solitudine ingiusta, straziante e intollerabile. Non abbiamo il conforto di una veglia funebre.

A Bergamo i convogli militari si occupano di portare via le bare. Andrà tutto bene....

Con quale diritto possiamo dirlo a queste persone?

E poi, come potrà andare tutto bene quando l'evidenza è tutt'altra, quando brancoliamo nel buio, non conosciamo quello da cui dobbiamo difenderci, non sappiamo se, come individui e come collettività, siamo preparati ad affrontare e sopportare qualcosa di così tragico e distruttivo?

 

Andrà tutto bene...

Mentre scrivo sale la rabbia, mi chiedo chi sia quella persona fuori dalla realtà che ha iniziato a diffondere questo messaggio, a far disegnare arcobaleni ai bambini, come se fosse un gioco, ponendo sulle loro piccole spalle il compito gravoso di sostenere la speranza.

Rabbia verso questo spostamento assurdo che ci fa individuare il nemico in un virus. Non è lui il nemico, lui fa il suo mestiere, ignaro di tutto, è programmato per questo. Noi per cosa siamo programmati?

Il nemico siamo noi, noi che non abbiamo un briciolo di lungimiranza, noi che non riusciamo a starcene a casa e scalpitiamo perché vogliamo prendere un po' d'aria, noi che cambiamo idea ogni due giorni sulla gravità, sulle misure, sulle terapie.

 

Andrà tutto bene...

Mi fermo un attimo, capisco di aver vomitato la rabbia, l'angoscia, la paura che implodono e mi soffocano.

Ascolto le persone, tante provano quello che provo io. Serve poter evacuare queste emozioni e pensieri? Oppure serve dire andrà tutto bene?

Dove risiede la speranza a cui tutti dobbiamo attingere e come convive con la paura della nostra fragilità?

Risiede nel poterci arrabbiare, dar sfogo a tutta la nostra angoscia, individuare i nemici tra chi ci governa, tra i paesi vicini, tra coloro che trasgrediscono alle regole? Oppure nel buttare fuori tutte le nostre paure catastrofiche, scaricarle su chi ci è vicino, intossicare gli altri per sentirci noi meno intossicati?

La risposta, ovviamente, è no, certo che non è questa una strada matura. Ma noi siamo anche esseri dalle emozioni immature, travolti spesso dalla nostra incapacità di contenere e sopportare quello che ci opprime e ci tormenta.

Ecco, allora, con una sorta di timore, con trepidazione, sottovoce, sussurrando, in punta di piedi credo che possiamo dirci

 

Andrà tutto bene...

Perché, anche se viviamo in una atmosfera carica di spavento e confusione, stiamo imparando a sopportare di non avere subito tutte le risposte, a tollerare l'incertezza, il dubbio, senza cadere nella disperazione

Stiamo, come paese e come singoli, resistendo alla tentazione di trovare sommariamente le colpe e crocifiggere, che è cosa diversa dal cercare responsabilità e porre rimedio agli errori.

 

Andrà tutto bene

Perché forse scopriamo che il vicino non è il nemico, ma un amico sconosciuto. Stiamo imparando a tenderci una mano, sappiamo offrire un sostegno possibile all'anziano da solo, al fruttivendolo che non può più vendere al mercato, agli ospedali che non hanno le attrezzature, a chi ha bisogno di parlare e condividere le ansie o la disperazione. Doniamo quello che sappiamo fare, musica, parole, video, battute e messaggi, cuciamo mascherine colorate per donarle.

Oggi possiamo provare, forse, dopo anni di spietato individualismo, a ritrovare un'etica della responsabilità, della collaborazione e della solidarietà in cui ognuno di noi rinunci a qualcosa a favore del bene comune. Lo stiamo già facendo, restando a casa.

 

Andrà tutto bene

Perché il nostro personale sanitario sta occupandosi di noi come tanti padri e madri, con una generosità, senso di responsabilità e amore senza limiti. Ci riempie il cuore di gratitudine e di sgomento, "sono pronti a morire per me..." proprio come padri e madri e noi come bambini che, pur nelle paure più angosciose, sentiamo che avremo a sostenerci queste braccia amorevoli e sapienti.

 

Andrà tutto bene

Sopratutto andrà tutto bene se potremo davvero avvicinarci alla nostra fragilità, e riconoscerne la bellezza, la condizione intrinseca all'essere umani. Perché solo così quelle parole non saranno la negazione di una dolorosa realtà, ma l'autentica accettazione del cammino che si fa meno difficile e penoso se percorso tenendo per mano l'altro.

 

Andrà tutto bene se potremo ammorbidire la corazza con cui affrontiamo di solito il mondo e ci lasceremo avvicinare dalla tenerezza. Perché se sapremo aprirci al dolore, al male che subiamo e a quello che procuriamo, allo sconforto e alla solitudine, allora potremo anche essere aperti alla gioia, e alla consolazione dell'affidarsi.

 

Andrà tutto bene sono le parole che la mamma o il papà rivolge al bambino che accompagna dal dottore, che affronta il primo giorno di scuola, che per la prima volta esce da solo per raggiungere l'amico, che si avvia alla sua prima partita.

 

Andrà tutto bene è l'incoraggiamento del figlio all'anziano padre che entra in ospedale, dell'amico vicino al momento dell'esame, della moglie al marito prima del colloquio di lavoro, dei genitori che salutano il figlio che emigra. Andrà tutto bene perché, se anche non sarà così, loro ci saranno, saranno al fianco di chi deve riprendersi, ritentare, asciugheranno le lacrime e continueranno ad amare.  Andrà tutto bene non perché possiamo garantire il futuro, ma perché possiamo garantire che saremo lì, comunque.

  

Sabina Dal Pra' Nielsen

 


 

 

Andrà tutto bene non perché possiamo garantire il futuro,

ma perché possiamo garantire che saremo lì, comunque.

 

Il Re Leone. I padri al tempo del coronavirus

La maggior parte di noi ricorderà la bellissima storia racconta dal film di Walt Disney, perché vista da bambino o da adulto, condividendo con il proprio figlio o nipote un momento per molti indimenticabile. La storia di Simba e di Mufasa, un po’ come le fiabe tradizionali, tocca livelli profondi del nostro sentire e per questo mantiene un posto importante nel cuore e nella memoria.

  

Foto tratta dal film "Il Re Leone" - Disney

 

Così è successo che in questo lungo, lunghissimo periodo della nostra vita in cui ci dobbiamo confrontare con compiti nuovi e abbiamo dovuto trovare nuovo senso ai nostri ruoli, mi sia tornato in mente questo film. Non dal punto di vista di Simba che passa dalla spensieratezza infantile alle mature riflessioni sul senso della vita per approdare all'accettazione delle proprie responsabilità, ma da quello di Mufasa, straordinario padre, esempio di forza, equilibrio e capacità affettiva.

Allora vediamolo, questo papà così speciale, che mi ha fatto pensare ai nostri papà speciali di questi tormentati giorni e alle qualità che si trovano a dover mettere in campo ora più che mai.

All'inizio del film, quando Simba è un piccolo cucciolo pieno di energie, vediamo che Mufasa accetta, sebbene con fatica, di alzarsi all'alba per tener fede a una promessa. Assonnato segue l'impaziente Simba "va bene va bene, sono sveglio sono sveglio..."

E, sulla roccia, eccolo in tutta la sua maestosa funzione paterna.

"Guarda, Simba. Tutto ciò che è illuminato dal sole è il nostro regno. Il regno di un re è come il sole, che sorge e tramonta. Un giorno, Simba, il sole tramonterà su tuo padre e tu diventerai il nuovo re.

Simba: E tutto questo sarà mio?

Mufasa: Tutto. Tutto ciò che è illuminato dal sole.

Simba: E i posti all'ombra, allora?

Mufasa: Sono oltre i nostri confini. Non ci devi mai andare, Simba.

Simba: Ma un re non può fare ciò che vuole?

Mufasa: Essere re vuol dire molto di più che fare quello che vuoi.

Simba: Molto di più?

Mufasa: Simba! Tutto ciò che vedi esiste grazie a un delicato equilibrio della natura. Come re, devi capire questo equilibrio e rispettare tutte le creature, dalla piccola formica all'antilope saltellante.

Simba: Ma, papà, noi le mangiamo le antilopi.

Mufasa: Si, Simba, ma lascia che ti spieghi. Quando moriamo, i nostri corpi diventano erba, e le antilopi mangiano l'erba. E cosi siamo tutti collegati nel grande cerchio della vita.

 

Ecco, condensati, in poche battute, gli insegnamenti fondamentali per affrontare la vita con coraggio, responsabilità e speranza. Mufasa indica la via al piccolo Simba, gli mostra la grandezza del suo compito, ma gli ricorda anche l'impegno che lo attende, la tutela dell'equilibrio della natura. Il "cerchio della vita" è il ciclo dell’esistenza di tutti gli esseri viventi, che presuppone la piena accettazione del mistero della vita, fatto di nascita, crescita e morte. Nel delicato equilibrio del mondo, natura ed esseri viventi diventano un insieme inscindibile, connessi soltanto da un filo sottile che va custodito e tutelato nel rispetto di tutte le forme di vita. Mai come ora abbiamo bisogno di padri, di adulti che si assumano questa responsabilità e la insegnino alle nuove generazioni. E che sappiano infondere speranza ed entusiasmo verso il futuro, perché, naturalmente, noi lasceremo il mondo ai nostri figli e sarà decisivo per il futuro dell'umanità, che possano accogliere questo passaggio con speranza ed entusiasmo e responsabilità.

Ma emerge anche con forza quella funzione fondamentale e difficilissima, la capacità di introdurre nella vita del piccolo Simba il concetto di limite, come esperienza fondamentale per crescere e diventare un grande re. La letteratura sociologica e psicologica ha scritto fiumi di parole sulla perdita, a partire dalla metà del secolo scorso, del ruolo del padre nell'educazione e nella crescita dei figli, denunciandone le gravi conseguenze. Non è questo il luogo dove affrontare un tema tanto complesso, piuttosto è l'occasione di rinnovare l'importanza, oggi, di questa funzione. Saper accettare, porre e far comprendere i limiti, proprio oggi, quando stringono la nostra vita in una morsa a volte soffocante, è una parte essenziale della funzione paterna, che, diciamolo chiaramente, può essere svolta da figure diverse.

Naturalmente nel gioco delle parti, i genitori pongono i limiti e i figli cercano di valicarli,

come Simba, manipolato dallo zio Scar. Il piccolo leone si mette in grave pericolo andando con la sua amica Nala a visitare le terre dell'ombra, quelle oltre i loro confini, cosa proibita dal padre. Come ogni genitore quando è spaventato dalle conseguenze dei comportamenti trasgressivi dei figli e teme per la loro incolumità Mufasa, dopo aver salvato Simba e Nala dalle iene, si arrabbia molto e li riporta a casa senza parlare. Alla sera, però ...."Figlio mio, non avresti dovuto disobbedirmi", disse, stringendo il leoncino in un abbraccio. "Oggi ho avuto paura di perderti":

Mufasa, grande re, non ha paura di ammettere i suoi sentimenti, le sue ansie, dichiarando l'amore grandissimo che lo lega al figlio. Nell'aria aleggiano i sentimenti legati alla perdita e infatti Simba chiede preoccupato "Papà staremo sempre insieme?"  E Mufasa gli ricorda, mostrandogli l'immenso cielo stellato, che i grandi re del passato lo guideranno e anche lui, un giorno, sarà tra quelli. Mufasa non gli dice che non sarà mai solo, forse la rassicurazione più facile che Simba, come ogni bambino, si aspetta, perché un re deve imparare ad essere solo. Gli parla di quello che rimane dentro di noi, ad un altro livello, del rapporto con i nostri genitori e del loro rapporto con i nostri antenati. Potremmo dire, con termini psicologici, che gli parla di cosa possiamo introiettare, in questa lunga catena di generazioni che diventa parte di noi e che rappresenta un po' il nostro cerchio della vita.

 

Illustrazione tratta dal film d'animazione"Il Re Leone"

 

Il film ci mostra altri aspetti importanti di questo rapporto padre-figlio, come la giocosità di Mufasa, il suo autentico divertirsi con Simba. Ma anche il suo ruolo di partner, tenero e innamorato della sua compagna. Vorrei soffermarmi su questo aspetto, come compito imprescindibile della figura paterna: rimanere saldamente al fianco della donna, non cedendo tutto lo spazio ai figli, contribuendo così al compito non facile, a volte arduo, di modulare lo stretto rapporto mamma-bambino, tutelando quel limite necessario alla crescita.

Naturalmente sappiamo quanto in questo periodo nelle famiglie sia necessaria questa funzione. I bambini, a causa della mancanza della scuola, delle attività, degli amici, in questa strana situazione di trovarsi a vivere la mamma anche come maestra, delle paure che a volte arrivano di notte, tendono a ritornare a un rapporto molto più stretto e a volte regressivo con la mamma.

Ecco, allora, che i papà, con la loro funzione separatrice, sono davvero indispensabili!

E i neopadri?

La nostra esperienza di vita in questo periodo di pandemia ci ha insegnato che possiamo non essere imprigionati nelle nostre immagini e ruoli, spesso dai contorni invalicabili. Ci siamo scoperti capaci di attività e attitudini di cui non avevamo conoscenza, abbiamo attinto a risorse antiche e le abbiamo proiettate nel nuovo.

Come può essere, mi sono chiesta, in questo periodo, l'esperienza dei padri durante la gravidanza delle loro compagne, durante il parto, al quale spesso non possono assistere?  Le coppie di neogenitori che seguiamo nel nostro progetto di sostegno alla maternità fragile ci hanno mostrato quanto impegno e quanti compiti vengano richiesti ai padri, ora che raramente ci sono nonne, zie, tate ad aiutare e sostenere le mamme. Nessun altro è ora vicino alla neomamma, nessun altro a fare la spesa, cucinare, dare il cambio per permettere alla mamma di riposare. C'è solo il papà, che, inoltre, come è stato per tanto tempo dai primordi della storia, esce per procacciare il cibo alla famiglia, la protegge dai "nemici", in questo caso un essere invisibile ma pericolosissimo. Quindi ai nuovi padri toccano compiti sia di tenero accudimento sia una sorta di ruolo ancestrale più vicino alla natura, ai bisogni primari.

Vorrei concludere lasciandovi con le meravigliose immagini del film e la commuovente colonna sonora "Il cerchio della vita", da condividere con i vostri figli.

 

Ascolta la colonna sonora

Cliccando qui

 

Sabina Dal Pra' Nielsen

 


 

 

Il " cerchio della vita” è il ciclo dell’esistenza di tutti gli esseri viventi,

che presuppone la piena accettazione del mistero della vita”

 

Quando mamma e papà non si vogliono più bene

 

Quando il legame coniugale si spezza, i genitori e i bambini vengono travolti da emozioni intense e contraddittorie, che spesso rendono molto difficile la gestione del processo di disgregazione e di lento riassestamento che vive una famiglia. Molti genitori, per quanto sensibili e attenti, si trovano spesso talmente invischiati in una rete di grande sofferenza per la fine del progetto familiare su cui avevano appoggiato la propria identità, da perdere in questo doloroso passaggio il contatto emotivo profondo con i loro bambini.

Le ansie e le preoccupazioni intense per il timore di non essere in grado di occuparsi dei figli da soli o la rabbia e il risentimento verso l’altro coniuge, possono diventare una potente zona d’ombra, che rischia di far perdere oppure di distorcere il “segnale” nel rapporto tra adulti e bambini. Sempre più spesso nelle consultazioni con coppie in fase di separazione, incontro genitori che preferiscono non comunicare ai bambini il cambiamento di vita in corso, riservandosi di esplicitare la fine della coppia coniugale al primo segnale di disagio o in caso di una richiesta esplicita da parte dei figli. In fondo, se i bambini non sembrano toccati dal cambiamento della separazione, perché indurre deliberatamente un turbamento in loro? La strada del non detto nasce dal desiderio di proteggere i bambini da una verità dolorosa, ma rischia di dare adito a terribili e irrazionali sensi di colpa, alimentando possibili fantasie infantili, come ad esempio di aver danneggiato il legame di coppia oppure di essere responsabile dell’allontanamento del genitore a causa delle “cose cattive e non amabili” che ci sono dentro di loro. “Non se ne è mai parlato in casa, ci ho messo un po’ per comprendere che i miei genitori si fossero separati. Facevano finta di niente, si parlavano normalmente ma con me o stava la mamma o il papà.

Mi dicevano che papà andava a lavorare, in fondo aveva un’attività che lo portava spesso lontano da casa. Avevano l’aria infelice e stanca ma più tacevano e soffrivano in silenzio, più mi sentivo colpevole e solo. Era normale dirsi se quel giorno ci fosse il papà o la mamma ma mai una parola sul fatto che non stessero più insieme. Adesso sono convinto che sono stati dei vigliacchi e mi hanno trattato da vigliacco”. Pensare di poter nascondere a un bambino i fatti dolorosi ma importanti della sua storia, pensando così di proteggerlo, è un’illusione in cui gli adulti cadono spesso: i genitori possono camuffare una separazione ma non le emozioni che la accompagnano, anche se fanno finta di niente. Questa strada espone ancora di più un bambino alla sofferenza, perché lo lascia solo, confuso e impotente. In fondo un bambino è in grado di accettare una verità anche dolorosa se gli viene rivelata in modo rispettoso delle sue emozioni e tenendo conto della sua età, purché non venga lasciato solo davanti a cose più grandi di lui che lo spaventano.

All’opposto a volte i genitori sono talmente presi dal desiderio che il figlio sia consapevole della realtà della separazione, da sovraesporlo a emozioni difficili da gestire ed elaborare. Molti genitori sentono naturale condividere con i figli situazioni molto personali della coppia coniugale o i propri sentimenti di delusione riguardo l’ex coniuge, vivendo queste comunicazioni come un momento di vicinanza. Mi vengono in mente le parole di un ragazzo reso partecipe in modo dettagliato del tradimento della madre: “Non avrei mai voluto sapere certe cose.

È stato un trauma. Si è rotto qualcosa dentro di me e nel mio rapporto con mia madre. C’è sempre questo pensiero di sottofondo”. Questo non soltanto rischia di danneggiare l’immagine del genitore nella psiche del figlio, ma può costringerlo a schierarsi alternativamente da una parte o dall’altra per compiacere una madre o un padre in lotta. Nelle separazioni più intensamente conflittuali, i figli a volte rischiano di diventare l’unico mezzo di comunicazione tra i genitori, in merito a questioni economiche e non, caricandoli di funzioni troppo adulte e lacerandoli con le rivendicazioni della loro guerra fredda. “Spesso quando consegno la busta delle spese mensili a papà, lui si arrabbia, mi riversa addosso tutte le sue difficoltà economiche e sofferenze a seguito della separazione. Dopo la mamma se la prende con me perché non sono riuscita a farmi dare quanto era mio diritto avere”.

Una buona elaborazione dell’esperienza della separazione può aiutare i genitori a differenziare il legame di coppia, ormai lacerato, da quello genitoriale, da cui non potranno mai dimettersi nell’interesse del bambino.

Nella mia esperienza clinica quanto più ci si dà la possibilità di elaborare l’esperienza della separazione, accogliendo le emozioni penose legate alla fine del legame coniugale, quanto più si gettano le basi emozionali per un buon affidamento congiunto che tendenzialmente garantisce la crescita armoniosa del bambino. Soltanto accogliendo i vissuti di sofferenza, di fallimento e di risentimento dei genitori, questi potranno ascoltare ed entrare in contatto con le angosce, lo sconforto, la rabbia e la delusione dei propri figli.

Le coppie che riescono a tener vivo un rapporto a livello genitoriale, anche dopo la separazione, pur nel riconoscimento della fatica e della difficoltà, offrono al bambino la possibilità di fare la preziosa esperienza delle differenze, non solo di ruolo, ma anche di personalità, e questo gli permette di accedere ad una visione ampia, multiforme delle relazioni e del mondo. Mantenere un rapporto genitoriale di rispetto e magari di sostegno ha un’importanza vitale per costruire il senso di sicurezza e stabilità del figlio, che si basa sull’immagine interna di due genitori in relazione tra loro per il suo bene.

Dalle parole dei bambini con mamme e papà separati, che si sono molto impegnati per sostenere genuinamente la crescita dei figli, ho imparato tanto, in particolare che la separazione, al netto della quota di dolore che inevitabilmente porta con sé, può rappresentare anche una fonte di crescita e di arricchimento per i figli.

 

Francesca Schillaci

 

Illustrazione di Federica Bordoni

 

 

 

“Mamma e papà si separano, dicono che avrò due case e due camerette,

ma io ho paura che non me ne sia rimasta neanche una”

 

 

I bambini mangiano quello che vogliono loro

(lo svezzamento secondo il pediatra allergologo Filippo Favuzza)

 

Lo svezzamento è il passaggio da una dieta esclusivamente lattea all’introduzione graduale delle pappe che contengano tutti i micro e macro-nutrienti necessari al corretto accrescimento del bambino dopo i primi mesi di vita.

Il piccolo deve avere acquisito alcune competenze motorie, ovvero il controllo quasi totale del capo in modo che possa stare sul seggiolone (questo di solito già avviene già tra il 4° e il 5° mese), saper compiere movimenti fini con gli arti superiori così che possa portare le mani in bocca o impugnare il cucchiaino, sia con l’aiuto della mamma che di altre figure familiari, come il papà, la nonna, la tata, nella mia esperienza fondamentali per supportare il processo di separazione mamma-bambino che lo svezzamento necessariamente comporta.

In ambito pediatrico si è soliti consigliare l’inizio dello svezzamento dopo il 6° mese. In realtà può essere anticipato nella finestra temporale che va dal 4° al 6° mese. Lo starting dipende da diversi fattori, dallo stato nutrizionale del bambino, dalle abitudini familiari e dal rischio personale di sviluppare un’allergia, pertanto rimane una scelta individualizzata e a discrezione del pediatra.

L’inizio dello svezzamento viene vissuto sempre dai genitori sia con curiosità ma allo stesso tempo con il timore che il bimbo possa rifiutare questo o quel cibo. Un suggerimento pratico, che nella mia esperienza si rivela molto efficace, è quello di far assaggiare più volte lo stesso cibo, sia che venga accettato o meno. Ad esempio si inizia a 4-5 mesi con la frutta, mela o pera: se si fornisce la mela e il bimbo la sputa e l’indomani si cambia immediatamente con la pera, e anche questa non viene assunta, il bimbo potrebbe non riconoscere adeguatamente i diversi sapori. Pertanto sarebbe opportuno provare con lo stesso frutto almeno 3-4 giorni consecutivi sia in caso di successo e di gradimento, sia in caso di rifiuto; questo per dare al bambino il tempo di fare la sua esperienza con un sapore nuovo, anche se questa non si rivela immediatamente piacevole. Non temete, questa frustrazione può essere tollerata. Questa regola vale per tutti i nuovi cibi che si introducono anche nella pappa. Un’ulteriore indicazione che ritengo utile per i genitori, è quella di permettere al bambino di fare esperienza del cibo con tutti i suoi sensi, vale a dire è bene che il bambino non soltanto assapori il cibo nel piatto ma che veda qualcosa che stimoli il suo interesse e al contempo possa toccarlo e annusarlo.

La prima pappa prevede una base di brodo vegetale fatta da 150 gr di un filtrato di 1L d’acqua, dove sono state fatte bollire patate, carote inizialmente, e poco dopo anche le zucchine, su cui vanno aggiunti 3-4 cucchiai di un cereale (crema di riso o mais e tapioca e subito dopo multicereali che contiene il glutine), 1-2 cucchiaini d’olio d’oliva, 1-2 cucchiaino di parmigiano reggiano stagionato almeno 24 mesi e ½ liofilizzato o omogeneizzato di carne (liofilizzato se siamo tra il 4° e il 5° mese, omogeneizzato dai 5 mesi compiuti). Si introdurranno prima carni bianche (pollo, tacchino, coniglio) successivamente carni rosse. Le società scientifiche consigliano, per un problema di maturità intestinale di introdurre carne fresca omogeneizzata solo dopo il 6° mese, quindi all’inizio è preferibile utilizzare liofilizzati o omogeneizzati. Primi frutti saranno mela o pera fresche grattugiate; se omogeneizzate preferire quelle preparate come una polpa, più vicina al frutto fresco. Successivamente al 5°-6° mese si potrà dare la prugna, la banana al 6° mese. Uno schema tipo di svezzamento dal 6° mese prevede latte al mattino, merendina di frutta a metà mattinata, prima pappa a pranzo, merendina di frutta al pomeriggio, la seconda pappa a cena, latte prima di andare a letto. In realtà il latte può essere fornito più volte, dipende dalle abitudini del bambino o se è allattato esclusivamente al seno, laddove il bimbo , ad esempio, potrebbe richiedere ancora il latte materno anche di notte, poiché questo dopo il 6° mese ha prevalentemente un significato più psicoaffettivo che nutrizionale.

Dopo queste indicazioni di massima, che fanno riferimento allo starting dello svezzamento, concludo dicendo che non si tratta di prescrizioni ma pratici suggerimenti, ogni mamma deve trovare la propria modalità ma che sia anche la più consona al suo bambino, sempre affidandosi ai consigli del proprio pediatria di fiducia.

Vi lascio con una classica massima della pediatria ovvero: “i bambini mangiano quello che vogliono loro!”.

 


 

 

 

 

 

 


 

 

"Non si tratta di prescrizioni ma pratici suggerimenti,

ogni mamma deve trovare la propria modalità ma che sia anche la più consona al suo bambino,

sempre affidandosi ai consigli del proprio pediatria di fiducia."

 

 

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