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Racconti, Fiabe e Filastrocche

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RACCONTI, FIABE E FILASTROCCHE

LA MUCCA SORDA

“RACCOLTA DI RACCONTI

dell'associazione La stanza Blu"

STORIE INEDITE DI ANIMALI, NATURA, RELAZIONI

 

Maria Petitti

con illustrazioni di Anna Polga

Copertina di Aurelia Zambonin

Editing a cura di Patrizia Casagrande

 

LA MUCCA SORDA

In una piccola stalla, ai piedi di una montagna, vivevano felici alcune mucche con i loro vitellini. Tutti i giorni andavano a pascolare nei prati lì intorno e la sera, quando tramontava il sole, ritornavano alla stalla dove le mamme facevano addormentare i loro figli, cantando insieme una ninna nanna.

Tra loro c'era anche Carolina, la mucca sorda: poverina! Era sorda da quando era piccola, ma non se ne preoccupava molto perché lei pensava di sentirci benissimo. Quando veniva a trovarla la bambina che abitava lì vicino, salutava sempre tutte gridando: "Ciao, sono Marta, come state?" e Carolina rispondeva immancabilmente: "Una sarta? Ho già detto che non ho bisogno di nessun vestito, sono bella così!".

"Ho detto che sono Marta" ripeteva ridendo la bambina. "Della carta? No grazie, mio marito non sa leggere, è inutile che gli scriva!". Marta allora le andava vicino e nell'orecchio le diceva: "Ciao, sono Marta, sono venuta a salutarti". "Ciao, perché non me l'hai detto subito che eri tu? Mi fai sempre gli scherzi, birichina che non sei altro!". E Marta se ne andava divertita ad accarezzare le altre mucche.

 

 

Se arrivava invece la sorellina più piccola e salutava: "Ciao, sono Francesca", lei pronta rispondeva: "Non ho bisogno di erba fresca, sono appena tornata dal pascolo!". Le sue amiche mucche ridevano di gusto, ma le volevano bene perché le faceva sempre divertire.

Una sera, quando cominciava a farsi buio, arrivò alla stalla un signore gobbo, con un sorriso cattivo e delle mani lunghe e ruvide. Si affacciò sulla porta e, con voce che cercava di esser convincente, disse:

"Belle mucche, ho del buon fieno fuori da regalarvi per l'inverno. Venite a vedere!" Le mucche, che avevano sempre paura di morire di fame quando la neve copriva la montagna, uscirono piene di entusiasmo. Solo Carolina prontamente rispose: "Un treno? No, sto bene qui, non voglio andare da nessuna parte" e rimase nella stalla. Appena Mastro Pellaio, così si chiamava il brutto signore, pensò che tutte le mucche fossero uscite, entrò nella penombra, cominciò a legare i vitellini con una catena sghignazzando tra sé:

"He, He! Quante belle borsette farò con la pelle morbida di questi piccini”.

I vitellini si dibattevano e urlavano: "Muu, muu, mamma, mamma, aiuto!"

Carolina, vedendo che suo figlio insieme ai suoi amici era in pericolo, corse verso l'uomo cattivo gridando con quanto fiato aveva in gola: "Lascia stare i nostri vitellini, altrimenti...". Ma Mastro Pellaio non la lasciò nemmeno finire.

Aveva portato con sé, per difendersi dalle mucche se l'inganno del fieno non avesse funzionato, un grosso ferro pesante. Colpi alla testa Carolina con tutta la forza che aveva e la poverina cadde al suolo priva di sensi. L'uomo cattivo allora fece salire su un camion i vitellini che tentavano inutilmente di resistere, agganciando la catena ad un piccolo argano meccanico. Poi partì, senza aspettare un minuto di più.

 

Le altre mucche, soddisfatte per il regalo ricevuto, ritornarono sorridenti alla stalla, ma quando si accorsero che i loro piccoli non c'erano più, cominciarono a piangere e a gridare: “Vitellini, vitellini, dove siete? Venite fuori. Oh, povere noi, come faremo?"

Carolina intanto si era rialzata e, con la testa che le doleva per la grande botta, le fece tacere con un muggito potente. Tutte si voltarono verso di lei con aria stupita: non avevano mai notato quella luce di sfida brillarle negli occhi. Con voce calma, ma dura, disse: "Mastro Pellaio li ha portati via. Li vuole uccidere per fare borsette con la loro pelle. Io vado a cercarli! Chi vuole venire con me, mi segua" e senza guardare in faccia nessuno, uscì dalla stalla. Tutte le altre mucche immediatamente si incamminarono dietro di lei.

Era notte e si vedeva ben poco. Per fortuna in cielo c'era la luna che illuminava un po’ il terreno con la sua luce d'argento. Carolina era sorda, non cieca! E ben presto scoprì le tracce che Mastro Pellaio aveva lasciato sull'erba. Cominciò a seguirle finché giunse alla strada in terra battuta che conduceva lontano. Senza perdersi d'animo, proseguì nell'inseguimento.

Quando ormai camminavano da alcune ore, le altre mucche si lamentarono dicendo: "Siamo senza fiato, fermiamoci un po'!". Ma Carolina subito rispose: "Un prato? Vi sembra adesso l'ora di mangiare quando i nostri piccoli, magari… forza! E state zitte, altrimenti ci scoprono!"

Quando spuntò l'alba cominciarono a passare per la strada alcuni camion e Carolina ebbe paura che qualcuno le notasse ed andasse ad avvisare Mastro Pellaio e poi erano davvero molto stanche. Così decise di nascondersi nel bosco che costeggiava la strada. Certo, non erano molto comode con gli aghi di pino che le pungevano, ma bisognava sapersi accontentare. Dopo poco tutte si addormentarono, aspettando pazienti che ritornasse l'oscurità.

Ripresero il cammino quando scese la sera e la strada era di nuovo deserta. Ormai però le impronte del camion di Mastro Pellaio si erano confuse con tutte le altre e qualche mucca, senza più speranza, disse: "Forse sarebbe meglio rinunciare…".

"Chi vuoi baciare? Il tuo vitellino?" rispose Carolina. "Anch'io, certo. Proseguiamo, forse troveremo qualche altro indizio".

Dopo circa un'ora di cammino, Carolina notò, di fianco alla strada, un grande spazio pieno di impronte. Si avvicinò annusando il terreno e riconobbe subito l'odore inconfondibile lasciato dai loro vitellini. Fece segno allora alle altre mucche di procedere piano piano su un piccolo sentiero che partiva da lì.

Poco dopo, si fermarono tutte all'improvviso, tranne Carolina naturalmente: avevano sentito dei deboli lamenti.

"Presto, andiamo!" si misero a gridare "Sono i nostri figli, liberiamoli!"

"Ferme e zitte." disse subito Carolina "Volete farvi catturare anche voi? Ditemi, che cosa avete sentito?"

"I nostri vitellini!" risposero tutte in coro.

Allora andiamo, forse sono nascosti in quella costruzione che si intravede là in fondo.” Piano piano andarono in quella direzione, ma subito dei cani cominciarono a ringhiare con cattiveria. Le compagne di Carolina si fermarono spaventate, ma lei, che aveva sentito solo un debole borbottio, proseguì con passo sicuro.

Improvvisamente però, si trovò davanti un grosso cane nero: aveva gli occhi rossi e i denti gli brillavano giallastri alla luce della luna. Carolina indietreggiò di qualche passo, ma il pensiero del suo vitellino in pericolo le diede coraggio. Chinò la testa, prese la rincorsa e zac! Infilzò con le sue corna appuntite il cane, che cadde a terra morto stecchito. Gli altri cani, che avevano assistito alla scena, subito si ritirarono nelle loro cucce pieni di paura. Carolina, senza più indugi, si avvicinò alla stalla da cui ora sentiva uscire anche lei pianti e lamenti. "Santo cielo!" si arrabbiò però "la porta è chiusa con il catenaccio".

Prese la rincorsa e provò a gettarvisi contro con tutto il suo peso, ma il portone era veramente robusto. Chiamò a raccolta tutte le altre mucche che si erano nascoste dietro ad alcuni alberi e le convinse, non senza fatica, che il pericolo era cessato. Insieme si buttarono, come una palla di cannone, contro la porta, che questa volta si staccò dal muro con un grande schianto. I vitellini, dapprima impauriti, si misero a gridare di gioia vedendo le loro mamme irrompere con tanta decisione nella loro prigione. Anche il figlio di Carolina disse tra le lacrime: "Mamma, mamma, come ti voglio bene! Che paura ho avuto senza di te!".

All'improvviso però tutto si fece silenzioso: nello spazio lasciato dalla porta caduta era comparso Mastro Pellaio, svegliato dal grande trambusto. Fece un passo avanti con la catena in mano per legare tutte le mucche, ma Carolina, ripresasi dallo spavento, gridò: "Alla carica!!” e si scagliò verso di lui.

Le altre allora ripeterono senza più paura: "Alla carica!!". Mastro Pellaio, vedendosi venire addosso tutte quelle mucche infuriate, cominciò a scappare con quanto fiato aveva in gola. Niente però poteva più fermare tante mamme furiose contro chi gli aveva rubato i figli.

Così lo raggiunsero, lo fecero cadere e lo infilzarono più volte con le loro lunghe corna, lo calpestarono, lo morsicarono persino. Alla fine, di Mastro Pellaio, non rimase che un paio di scarpe nere.

Le mucche, soddisfatte, corsero a liberare i loro piccoli e li accompagnarono sulla via del ritorno. Camminarono per tre giorni, riposandosi spesso per non affaticare i vitellini, finché una sera giunsero finalmente a casa.

Subito gli corsero incontro felici Marta e Francesca, che si erano molto preoccupate per la loro improvvisa scomparsa. E quando chiesero curiose: "Ma si può sapere dove vi eravate cacciate?", la nostra simpatica e coraggiosa Carolina rispose: "Bere delle limonate? No grazie, preferisco un po' di acqua fresca!”.

E tutti scoppiarono in un'allegra risata.

 

 

"Sono i nostri figli, liberiamoli!"

 

 

 

Maria Petitti

MARGOTTA, LA MARGHERITA BLU

“RACCOLTA DI RACCONTI

dell'associazione La stanza Blu"

STORIE INEDITE DI ANIMALI, NATURA, RELAZIONI

 

Maria Petitti

con illustrazioni di Anna Polga

Copertina di Aurelia Zambonin

Editing a cura di Patrizia Casagrande

 

MARGOTTA, LA MARGHERITA BLU

C’era una volta, tanto tempo fa, un bambino di nome Eduin che viveva su un’isola lontana in mezzo ad un mare di mille colori.Il luogo dove abitava era un po' strano: i prati erano di un bel giallo dorato, gli alberi rosso fuoco e i fiumi, verdi smeraldo, brillavano come tante pietre preziose.

Il nostro amico si cibava dei frutti deliziosi che crescevano vicino alla grotta che usava come casetta. Era un po' cicciottello perché poteva arrampicarsi sull’albero con i frutti che sapevano di pizza, su quello da cui pendevano le patatine, oppure le caramelle…Insomma, si faceva delle grandissime scorpacciate! Era contento di abitare lì, ma si sentiva un po' solo perché non aveva nessuno con cui parlare e soprattutto a cui voler bene.

Un giorno, fuori dalla sua grotta, trovò una bella margherita blu che il vento, dopo averla strappata chissà dove, aveva depositato lì, forse per farla curare da lui.

 

 

In effetti stava molto male e probabilmente di lì a poco sarebbe morta se Eduin non l’avesse subito raccolta. Fece un bel buco profondo nella terra morbida vicino alla sua grotta, piantò la margherita, la bagnò con l’acqua verde e fresca del fiume, la riscaldò con le foglie rosse e la illuminò coi raggi splendenti delle stelle. La margherita sembrava sorridere riconoscente per tutte quelle attenzioni.

Passarono i giorni e la nuova amica di Eduin stava meglio ma, nonostante gli sforzi del bambino, non riusciva a sollevare la testa. Eduin perciò si convinse a partire per cercare nel grande universo qualcosa che aiutasse la margherita, che aveva deciso di chiamare Margotta.

Costruì un aquilone, salì in cima alla montagna più alta della sua isola e si lasciò prendere dal vento, che lo trasportò verso una stella azzurra. Atterrò in un immenso campo di margherite che avevano la testa bella diritta rivolta verso il cielo.

 

 

 

 “Come fate a non chinare la testa?” chiese subito Eduin.

“Come facciamo? Ma è così facile! Il nostro mago ci cura benissimo e a noi viene naturale” risposero in coro i fiori.

“Vi cura un mago? E come fa?” domandò allora il bambino.

“Non lo sappiamo, chiedi a lui” dissero ancora le margherite.

“Ma dov’è?”

“Chissà, potrebbe essere ovunque”

“Non ho voglia di cercarlo, sono stanco per il viaggio che ho già fatto fin qui. D’altra parte, è inutile, il segreto sarà senz’altro nella terra su cui crescete. Ne prenderò un bel sacco e risolverò il mio problema”, concluse Eduin.

Mentre scavava, sbucò fuori improvvisamente un piccolo esserino verde, viscido come una lumaca e ricoperto di squame come una lucertola. Con la sua voce roca e petulante disse: “Sì, sì, fai da solo. Si vede subito che sembri un bambino intelligente! Mai perdere tempo a farsi aiutare quando si hanno delle qualità.”

Eduin, pieno d’orgoglio, non si accorse nemmeno che chi gli parlava era un essere davvero schifoso, a cui solo i pazzi avrebbero dato fiducia! Perciò, sicuro di sé, tornò sulla sua isola. Subito sparse la terra intorno alla sua margherita e poi, soddisfatto, andò a letto.

 

 

Ma il giorno dopo Margotta non era certo migliorata, anzi… il capino, che ormai toccava quasi terra, sembrava schiacciato da una forza sconosciuta. Eduin allora si disperò e cominciò a picchiarsi i pugni sulla testa singhiozzando: “Sono stato proprio uno stupido a credere di riuscire a guarire la mia margherita da solo, senza andare dal grande mago. Così ho combinato un bel pasticcio! Chissà se ora farò ancora in tempo a salvarla!”.

Diede un bel bacino delicato alla sua Margotta per non farle male e di nuovo partì con il suo aquilone. Atterrò nello stesso campo di margherite e raccontò loro l’accaduto. Si levarono cento e cento: “Oh! Poverina! Che disgrazia” e poi tutto tacque. Dopo qualche minuto una margheritona disse: “Perché non vai dal grande mago a chiedere aiuto? Sono certa che lui ti ascolterà.”

Eduin questa volta non se lo fece ripetere, ma chiese subito: “Come faccio ad arrivare fino a lui?”

La margheritona rispose: “Devi attraversare tutto il campo senza calpestare neanche un fiore e poi stai attento ai segni che ti indicheranno la strada”. “Ma se mi perderò?” chiese pieno di ansia il bambino.

“Non ti preoccupare” rispose lei “più forte sarà il desiderio di incontrare il mago, più chiari saranno i segni”.

Eduin allora si incamminò, attento a non calpestare nemmeno un germoglio. Arrivato in fondo al campo, si trovò davanti due sentirei, uno che andava in salita e l’altro in discesa. Si fermò perplesso, poi pensò: “Le persone in gamba guardano sempre verso il cielo. Il mago sarà senz’altro in alto”. Così si incamminò in salita, un passo dopo l’altro, cercando di non pensare troppo alla fatica che faceva. Dopo quella che gli parve un’eternità arrivò tutto sudato e senza fiato in cima ad un monte. Si stese per terra sfinito e si riposò. Poi si mise a cercare con attenzione un segno che gli indicasse la strada da seguire.

Dopo qualche tempo arrivarono tranquille e silenziose due caprette, una bianca e una nera. L’una si incamminò verso destra e l’altra verso sinistra. Eduin ci pensò qualche istante poi decise: “Seguirò la bianca, che è il colore della luce, mentre il nero è il colore del buio che mi fa paura”. E così, fiducioso, seguì la prima capretta. Cammina, cammina, arrivò in uno spiazzo d’erba tenera; la capretta si fermò e si mise a brucare, facendogli capire che il suo compito di guida era finito.

Eduin si guardò intorno attento: vide una collina illuminata da un bel sole caldo e una ricoperta di freddo ghiaccio. Subito il bambino decise: “Andrò al caldo, come caldo è il mio cuore per il desiderio di trovare il mago”. Quando finalmente arrivò in cima, si trovò davanti un’enorme e ripidissima parete di roccia. Lì si fermò perché non poteva proseguire da nessuna parte. Si sedette ad aspettare e gli venne il dubbio di aver sbagliato ad interpretare qualche segno.

Quando già aveva deciso di tornare indietro, vide una figura che scendeva come un camoscio da quella roccia scoscesa. Come facesse nessuno lo sa e neanche Eduin riuscì a capirlo, ma in un baleno il nostro amico si trovò davanti proprio il mago! Era grande, potente, maestoso.

Sorridendo si rivolse ad Eduin: “Ciao, ti aspettavo, ma sapevo che da solo non avresti mai potuto raggiungermi. Cosa vuoi?”.

“Voglio sapere come far rialzare la testa alla mia margherita. Mi puoi aiutare?”

“Vieni e vedi come faccio io” e il bambino si fermò con lui tutto il giorno.

Quando il sole era tramontato da un pezzo, prese l’aquilone e tornò nella sua isola. Si mise subito a curare Margotta che oramai era stesa quasi del tutto a terra. Rifece i gesti che aveva sempre fatto: la bagnò con l’acqua verde del ruscello, sistemò la terra intorno…, ma qualcosa era cambiato. Il mago gli aveva insegnato a volerle bene. Infatti, poco dopo, Margotta cominciò a sollevarsi un po’, vincendo l’incredibile debolezza che l’aveva pervasa.

Il giorno dopo, quando Eduin si svegliò, sgranò gli occhi per lo stupore: il suo bel prato giallo era pieno zeppo di margherite. Mille e mille Margotte lo guardavano con aria interrogativa: le avrebbe sapute curare? La sua amica intanto aveva girato la testa verso di loro e la muoveva avanti e indietro, forse per salutarle.

Eduin fu preso dal panico, si inginocchiò vicino alla sua amica e le chiese: “Margotta, ieri ti ho curata bene? Dimmi cosa devo fare con tutte queste tue sorelle!”.

La margherita alzò un po’ il capino e il bambino pensò che le indicasse il cielo. Così salì di nuovo sull’aquilone e si diresse verso la stella azzurra. Atterrò proprio mentre il mago stava curando il campo sterminato di margherite. Quando vide il bambino sorrise perché sapeva già come mai era lì. Gli si avvicinò e chiese con voce divertita: “Ciao ragazzo, come mai sei ancora qui? La tua Margotta sta forse ancora male?”,

Eduin subito rispose: “Nella mia isola sono arrivate tantissime margherite, non so proprio come mai. E se combino qualche pasticcio?” Il mago, ridendo sotto ai baffi, disse: Llo so, lo so che sono arrivate tante margherite: te le ho mandate io!” “Tu?!! Ma perché?” mormorò Eduin. “Perché avevano bisogno di qualcuno che gli volesse bene e tu sei quello che ci vuole!” “Io? Ma se mi sono già dimenticato tutto!”

“Non ti preoccupare” rispose il mago “ti manderò qualcuno, un amico, che ti aiuterà a ricordare tutto quello che hai imparato da me. Vai, io ti sarò vicino”

Eduin tornò nella sua isola e si sedette tra le margherite. Dopo poco, contro il cielo, si stagliò una macchia scura, che diventava più grande, sempre più grande… era un falco reale che planò nell’aria limpida e si appoggiò sulla spalla del bambino. Bisbigliò qualcosa al suo orecchio, chissà cosa, nessuno tranne il bambino poté sentire. Incominciando da Margotta, sempre la preferita, Eduin si occupò delle margherite, curandole ad una ad una.

Da quel giorno, l’isola di Eduin fu chiamata Marghemondo, perché si ricoprì di mille e mille margherite che si potevano vedere con i loro capi alzati verso il cielo anche da molto lontano; più alta e più dritta di tutte, la bella Margotta sorrideva felice.

E ancora adesso Eduin e il suo falco inseparabile sono i giardinieri più famosi del mondo.

 

 

“Voglio sapere come far rialzare la testa

alla mia margherita. Mi puoi aiutare?”

 

 

Maria Petitti

PUNTE AGUZZE

“RACCOLTA DI RACCONTI

dell'associazione La stanza Blu"

STORIE INEDITE DI ANIMALI, NATURA, RELAZIONI

 

Maria Petitti

con illustrazioni di Anna Polga

Copertina di Aurelia Zambonin

Editing a cura di Patrizia Casagrande

 

PUNTE AGUZZE

Era proprio un bel giorno, quel giorno d’inverno. L’orsa bruna che abitava nella grande foresta, dopo aver dormito nella sua grotta per circa due mesi, si era svegliata ritrovandosi fra le zampe tre bellissimi cuccioli.

Avevano i piccoli occhi ancora chiusi, ma aprivano a più non posso la loro bocca, muovendo freneticamente la testa per trovare qualcosa da mangiare. La mamma, delicatamente, li guardò con il muso verso il suo petto a cui subito si attaccarono per succhiare avidamente il buon latte tiepido. Dopo poco, però, uno di loro, con il pelo rosso cupo, cominciò a spingere gli altri due per rimanere da solo nel morbido abbraccio. Loro si misero subito a piagnucolare ed allora lei li accarezzò delicatamente con la lingua per consolarli.

In quel momento, mentre li guardava nei loro primi attimi di vita, decise i loro nomi: Palla di Fuoco il primo, perché sembrava un fuoco vivace sia dentro che fuori, Bella la seconda, perché era proprio graziosa con quel suo ricciolo tra le piccole orecchie e Testa Fina il terzo, perché aveva un’aria riflessiva e saggia. Con questi pensieri si addormentò felice, scaldando con il corpo i suoi nuovi cuccioli.

 

Passò qualche mese e finì anche l’inverno. I tre orsetti erano cresciuti quel tanto da poter correre e saltare sulle loro zampette corte. L’aria, fuori dalla tana, era diventata un po’ meno fredda e qualche farfalla volava tra i rami degli alberi coperti da un sottile vestito di foglioline verde chiaro. Mamma orso decise che era arrivato il momento di portarli finalmente fuori dalla tana per far loro conoscere il mondo. Subito i piccoli cominciarono a guardarsi intorno e si avvicinarono stupiti ad un grande fiore giallo. Naturalmente tutti e tre volevano cocciutamente guardare, nello stesso preciso momento, lo stesso identico fiore, nonostante il prato fosse punteggiato da moltissime macchie colorate! I tre cuccioli si misero così a litigare a gran voce.

 

Palla di Fuoco gridò subito: “Spostatevi, brutti ciccioni puzzolenti, l’ho scoperto io questo fiore!”, ma Testa Fina risposte pronto: “Palla di lardo, non vedi che se ti avvicini appassisce?” e cominciò a spingerlo via aiutato da Bella che nelle litigate si alleava sempre con lui. A questo punto Palla di Fuoco cominciò ad arrabbiarsi sul serio. Come si permettevano quei due di trattarlo in questo modo? Il muso gli diventò tutto rosso, quasi come il suo pelo e gli venne una gran voglia di picchiarli selvaggiamente. Si avventò su di loro e diede una zampata sulla pancia di Testa Fina e…. il sangue cominciò a uscire abbondante da una ferita lunga e abbastanza profonda. Subito Palla di Fuoco si ritrasse spaventato: certo, aveva pensato di far male a suo fratello, ma era solo un pensiero, mica voleva fargli male veramente! Intanto aveva visto Testa Fina correre dalla mamma piangendo e gridando come un forsennato per il dolore. Lei l’aveva portato subito al fiume per lavarlo con l’acqua fresca, poi era corsa come una furia da lui e gli aveva mollato un fortissimo ceffone in pieno muso, dicendogli: “Non permetterti mai più di usare gli artigli contro tuo fratello!” Artigli? E che cos’erano gli artigli? Nessuno gliene aveva mai parlato! Si guardò le zampe e… orrore! Dalle sue dita uscivano delle punte aguzze! Se le toccò con cautela, erano molto affilate!

Tornò mogio mogio verso la mamma che stava ancora consolando Testa Fina. Appena lo vide gli disse con faccia imbronciata: “Chiedi subito scusa a tuo fratello!”. Chiedergli scusa? Ma perché? Non era colpa sua se sulle zampe c’erano quelle punte che… come si chiamavano? Manigli?

La mamma, visto il suo silenzio pensieroso, si avvicinò ancora di più e gli intimò di nuovo: “Chiedi subito scusa a tuo fratello!”. Palla di Fuoco, sottovoce per non farsi sentire da Bella, sussurrò: “Scusa” e se ne andò triste.

Di sera si avvicinò alla mamma e le chiese: “Cosa sono queste punte che mi ritrovo sulle zampe e che fanno tanto male?”. “Ma come?” gli rispose la mamma, “Sono gli artigli. Se non li devi usare, tienili dentro”. Tenerli dentro? E come si faceva?

Da quel giorno osservò gli altri orsi e vide che tutti, ma proprio tutti, riuscivano a non far uscire i loro artigli dalle zampe. Solo lui, nonostante i continui sforzi, non ci riusciva! Era disperato perché tutte le volte che si arrabbiava, se non stava più che attento, rischiava di fare veramente male a chi gli veniva sotto tiro. Lui non avrebbe voluto, ma che fatica controllarsi in continuazione! I suoi fratelli erano liberi di arrabbiarsi come volevano e di fare una bella litigata senza conseguenze irreparabili, ma lui…

Un giorno d’estate, la mamma li aveva lasciati da soli vicino alla tana per andare a pescare un po' di pesce fresco nel fiume. Stavano tranquillamente giocando a prendersi quando un’ombra si avvicinò minacciosa.

I tre fratelli si misero vicino e alzarono il muso: un enorme orso nero li guardava con gli occhi rossi e si passava la lunga lingua sui denti gialli e bavosi. Poi allungò una zampa pronto a colpirli con un solo movimento. Testa Fina e Bella cominciarono a singhiozzare, ma Palla di Fuoco voleva vendere cara la pelle.

Fece un passo per arrivare proprio sotto alla pancia prominente del nemico, poi con un balzo si arrampicò fino alle spalle artigliando la sua pelle dura. L’orso non ebbe neanche il tempo di reagire che già il cucciolo gli aveva conficcato nel naso delicato le sue punte aguzze. Poi si lasciò scivolare veloce a terra. La brutta bestiaccia cominciò a guaire dolorante e se ne andò lontano.

I tre fratelli corsero a cercare la mamma per raccontarle trepidanti l’accaduto. Lei li abbracciò e baciò teneramente Palla di Fuoco dicendogli: “Finalmente hai scoperto contro chi devi usare i tuoi artigli. Sei davvero in gamba!” e miracolosamente, da quel momento, Palla di Fuoco imparò a tirare dentro e fuori dalle zampe le sue punte affilate e diventò l’orso più coraggioso del territorio.

 

 

 

“Sono gli artigli.

Se non li devi usare, tienili dentro”.

 

 

Maria Petitti

LA PRIMA RISATA

“La prima risata”

testi di Gioconda Belli e illustrazioni di Alicia Baladan

Casa editrice Topipittori    Età consigliata: da 5 anni

 

Come nacque la prima risata?

La storia del libro “La prima risata” comincia in una foresta tropicale, fra alberi giganteschi, orchidee e intrecci di rampicanti, ai piedi di una ceiba dalla cui chioma scendono i protagonisti che si accorgono di essere “il primo uomo e la prima donna”. Sono due bambini: Enea e Alia, si guardano stupiti, e appena scoprono di essere diversi scoppiano a ridere.

Ci sentiamo immediatamente dentro una leggenda che è un inno alla creazione. La ceiba è un albero sacro ai Maya, i suoi rami si estendono verso il cielo in cerca di contatto con la divinità. La foresta è una sorta di Paradiso Terrestre e quelle prime creature della terra ci sembrano Adamo ed Eva, per quanto siano raffigurati come due bambini.

Incomincia una danza meravigliosa, Enea e Alia felici, giocano nell’abbondanza di una natura generosa, che li accoglie luminosa e sembra nascere essa stessa, dal vuoto che precede la creazione, prendendo forma attraverso il canto gioioso dei protagonisti.

 I bambini scoprono se stessi e i propri corpi, nella bellezza delle differenze “La mia mano è più piccola della tua”, “La tua vita ha la linea curva della luna e i tuoi piedi assomigliano ai pesci del fiume”. La natura, piante e animali, e i corpi dei bambini, sono raffigurati nella magnificenza attraverso i più piccoli particolari, foglie, petali, ali colorate di farfalle, ali vibranti nel frullio del movimento di una libellula. Le dita scorrono sul volto dell’uno e dell’altra, e si intrecciano le risate mentre fra i rami si lanciano in acrobazie le scimmie e si scambiano fiori.

“Tu sei morbida e rotonda. E sai leggere i miei pensieri più profondi” dice Enea ad Alia. Uno davanti all’altra, facendosi da specchio, intraprendono un viaggio di scoperta. Con le mani danzanti nell’aria si sfiorano, ridono facendosi il solletico. Indicano e nominano i corpi con la dolcezza di parole che incantano e che sono un battesimo di vita. E mentre giocano, procede l’elaborazione di una esperienza straordinaria: i corpi sono come piccoli universi da esplorare, mappe geografiche da disegnare. La risata è un suono che attraversa le più piccole cose, lo spazio bianco di una pagina è un vuoto attraversato da rane che guizzano tra le sponde, e le più grandi cose, fiori e foglie immensi, gigantesche forme. La foresta è un intrigo in cui si affacciano volti e corpi di animali, d’un tratto sembra tutto immobile. Si ferma ogni creatura e la risata dei bambini sovrasta il silenzio della natura che mai aveva sentito tanta felicità e comincia ad interrogarsi sulla bellezza di quel suono, soffio di vita. Il fiume si riconosce nella loro risata, Enea ed Alia si immergono nelle acque fra i pesci e poi di nuovo giocano, corpo a corpo, saltando e ridendo. Il vento si meraviglia perché riconosce in quella risata il suono dei suoi giochi fra le foglie. E verso la fine della storia appare un altro albero sacro, la quercia, nella mitologia nordica “Yggdrasill”, l'albero cosmico, della vita. Alia sulle spalle di Enea si protende verso il cielo, nel tripudio dei colori di una infinità di uccelli, il cui battito di ali sembra accordare la risata dei bambini al suono della natura. La quercia sfiora la pelle di Alia, solletica la schiena, pensa “Voglio anch’io quell’allegria che si sparge dappertutto” mentre ripete quel gesto di conoscenza così umano e familiare fra i bambini. Tutto appare fondersi in unico canto, la quercia sente dentro di sé cantare tutti gli uccelli del mondo. E il suono della prima risata attraversa i corpi dei bambini e il corpo della quercia, come non vi fossero più confini e i corpi fossero coperti da un’unica pelle di morbida corteccia. Il finale è un crescendo di bellezza, offre una straordinaria fioritura che fa di questo libro qualcosa di memorabile. La risata è un suono che attraversa il vento della storia così come lo spirito soffia dove vuole. E tutto prende anima, il bianco così intenso dei corpi dei bambini, ogni tonalità di verde che fa sentire agli occhi lo splendore della forma, le consistenze luminose della materia, che appare spessa e trasparente, tonda e cava. In questo viaggio alla scoperta di se stessi e dell’altro, dentro una natura buona che si lascia aprire e che apre, in questa ricerca di conoscenza, si compone un alfabeto emotivo che offre allo sguardo dei bambini, e li aiuta a comprendere, le emozioni più profonde, con la lievità sacra di una risata.

«Nutre la mente soltanto ciò che la rallegra», scriveva Agostino nel XIII Libro delle Confessioni, dedicato al soffio ravvivante che chiamiamo "spirito".

 

Recensione a cura di:

Olimpia Addabbo

 

Alcune note sulle autrici del libro:

Alicia Baladan, autrice delle illustrazioni, è nata in Uruguay dove ha trascorso l‘infanzia. Trasferitasi in Italia, dopo un periodo di residenza in Brasile a Rio de Janeiro, si è diplomata presso l’Accademia di Belle Arti di Brera di Milano. Ha partecipato a diversi film-festival internazionali di animazione e sperimentazione dell’immagine. Da alcuni anni si è concentrata sull’illustrazione e la scrittura, sviluppando l’aspetto narrativo del suo lavoro. Attualmente vive e lavora a Brescia, Italia.

Alcune opere dell’illustratrice, con testi di altri scrittori e poeti:

Storia Piccola, con i testi di Cristina Bellemo; Topipittori; età consigliata: da 5 anni

La leggerezza perduta, con i testi di Cristina Bellemo; Topipittori; età consigliata: da 5 anni

Cielo Bambino, con i testi di Alessandro Riccioni; Topipittori; età consigliata: da 5 anni

 

Alcune opere illustrate e scritte da Alicia Baladan:

Una storia guaranì, edito da Topipittori; età consigliata: da 7 anni

Sito internet dell’autrice: https://cargocollective.com/aliciabaladan

 

Gioconda Belli, autrice dei testi, è nata a Managua in Nicaragua. È una poetessa, giornalista, scrittrice. La sua opera ha ottenuto numerosi e prestigiosi riconoscimenti a livello internazionale. Il romanzo La mujer habitada (1988) è stato tradotto in quattordici lingue, con grande successo, specialmente in Italia e Germania. Donna dai grandi ideali, impegnata nella vita politica del suo paese, ha partecipato alla resistenza e fu costretta all’esilio. La sua scrittura esprime, fra altri temi, la bellezza della maternità. Il romanzo “L’infinito nel palmo della mano” rappresenta il racconto delle nostre origini immaginando l’universo primigenio e la storia della prima coppia, un uomo e una donna alla scoperta di se stessi, la meraviglia del dare alla luce e i più potenti sentimenti. Successivamente la scrittrice, sulle stesse tematiche, ha pensato e composto il poetico libro “La prima risata”.

Alcune opere scritte da Gioconda Belli:

La fabbrica delle farfalle, con le illustrazioni di Wolf Erlbruch, edizioni e/o; età consigliata: da 6 anni

 

 

 

La storia comincia in una foresta tropicale,

fra alberi giganteschi,

orchidee e intrecci di rampicanti,

ai piedi di una ceiba... 

 

 

 

 

recensione di Olimpia Addabbo

IL MISTERO DELLA NASCITA E L'INCANTO DELLA SCOPERTA DEL CORPO: ALBI ILLUSTRATI

Ecco alcuni albi illustrati che avvicinano al mistero della nascita e all’incanto della scoperta del corpo,

secondo un approccio poetico che osserva il bambino, ascolta le sue domande, apre all’immaginazione e coltiva la fantasia.

 

Una mamma è come una casa, Aurore Petit, Topipittori (da 3 anni)

Molto prima di te, Rascal e Mandata Sadat, Cult Jeunesse (da 3 anni)

Un tempo per tutto, Christian Demilly e Laurent Moreau, Emme Edizioni (da 3 anni)

Genitori felici, Laëtitia Bourget e Emmanuelle Houdart, Logos Edizioni (da 5 anni)

Prima di me, Luisa Mattia e Mook, Topipittori (da 3 anni)

Quando sono nato, Isabel Minhós Martins e Madalena Matoso, Topipittori (da 3 anni)

Ascolta, mamma, Sachie Hattori, Kira Kira (da 3 anni)

La prima risata, Gioconda Belli e Alicia Baladan, Topipittori (da 5 anni)

 

 

 

 

 

 

Libri che avvicinano al mistero della nascita

e all'incanto della scoperta del corpo

 

 

 

 

Olimpia Addabbo

FATE LA NANNA: STORIE DELLA BUONANOTTE

Il tuo bambino non fa la nanna? prova a leggergli una di queste storie...

e buonanotte a lui e a te! 

 

Komako Sakai-Chihiro Ishizu, A tutti, buonanotte, Babalibri. Da 18 mesi.

Paloma Canonica, Buonanotte Luna, Bohem Press. Da 18 mesi.

Altan, Le ninne nanne di Pimpa, Franco Cosimo Panini. Da 18 mesi.

Altan, Buonanotte luna, Franco Cosimo Panini. Da 18 mesi.

Alex Sanders, L’ora della luna, Babalibri. Da 2 anni.

Joyce Dunbar- Debi Gliori, Raccontami qualcosa di bello prima di fare la nanna, Interlinea. Da 2 anni.

Carol Roth-Valeri Gorbachev, La notte in bianco di Tommaso, Nord-Sud. Da 3 anni.

Michel Van Zevern, Tre piccoli gorilla coraggiosi, Babalibri. Da 3 anni.

Oksana Bula, Orso non vuole dormire, Jaca Book. Da 3 anni.

Margaret Wise Brown, Buonanotte luna, Nord-Sud. Da 3 anni

Kitty Crowther, Storie della notte, TopiPittori. Da 3 anni.

Beatrice Alemagna, Buon viaggio piccolino, Topipittori. Da 3 anni.

Bruno Munari, Buona notte a tutti, Corraini. Da 3 anni.

Giovanna Zoboli-Simona Mulazzani, Il grande libro dei pisolini, Topipittori. Da 3 anni.

Martin Waddel – Barbara Firth, Non dormi piccolo Orso?, Salani. Da 3 anni.

Amy Krouse Rosenthal-Jen Corace, Piccolo Bubo, Zoolibri. Da 4 anni.

Bonny Becker-K.Mac Donald Denton, Buonanotte Orso!, Nord-Sud. Da 4 anni.

Jane Yolen-Marc Teague, Cosa fanno i dinosauri quando è ora di dormire?, Il Castoro. Da 4 anni

Arnold Lobel, Storie di topi, Kalandraka. Da 4 anni.

Beatrice Masini, Il Casello della Buonanotte, Einaudi Ragazzi. Da 5 anni.

Chiara Carminati, Buonanotte a Prato Sonno, Einaudi Ragazzi. Da 5 anni.

Roberto Piumini, Ninne nanne di parole, Bompiani (poesie)

Bruno Tognolini, Rima rimani, Nord-Sud (poesie)

Bruno Tognolini, Mal di pancia calabrone, Nord-Sud (poesie)

 

 

 

Tanti libri per fare la nanna

 

 

 

 

Letizia Bolzani

LA LEGGENDA DEI GIORNI DELLA MERLA

Dovete sapere che i merli, un tempo, avevano delle bellissime piume bianche e soffici. Durante il gelido inverno, raccoglievano nei loro nidi le provviste per sopravvivere al gelo, in modo da potersi rintanare al calduccio per tutto il mese di gennaio. Sarebbero usciti solo quando il sole fosse stato un poco più caldo e i primi ciuffi d’erba avessero fatto capolino tra i cumuli di neve.
Così, aspettarono fino al 28 di gennaio, poi uscirono. Le merle cominciarono a festeggiare, sbeffeggiando l’Inverno: anche quell’anno ce l’avevano fatta; il gelo, ai merli, non faceva più paura!
Tutta questa allegria, però, fece infuriare l’inverno, che decise di dare una lezione a quegli uccelli troppo canterini: sulla terra calò un vento gelido, che ghiacciò la terra e i germogli insieme ad essa. Perfino i nidi dei merli furono spazzati via dal vento e dalla tormenta.
I merli, per sopravvivere al freddo, furono costretti a rintanarsi nei camini delle case. Lì, il calduccio li riscaldò e permise loro di resistere a quelle giornate.
Solo a febbraio la tormenta si placò e i merli poterono riprendere il volo. La fuliggine dei camini, però, aveva annerito per sempre le loro piume bianche: fu così che i merli divennero neri, come li possiamo vedere oggi.

 

 

 

 

 

“La fuliggine dei camini, però, aveva annerito per sempre le loro piume bianche”

 

 

 

Leggenda Popolare

Filastrocca: La canzone della cicogna

Alla casa grigia la cicogna un giorno andò
e dei bimbi svegli piano piano via portò.
Li portò lontan lassù                                
donde i bambini non tornan più.                            
Dormi, dunque, dormi bebè
se vuoi restar con me.
 
La ninna nanna della cicogna
piccolo amore ti canterò;
dei vivi raggi di buona luna
se non ti desti ti coprirò.
 
Alla casa grigia la cicogna ritornò
e dei bimbi svegli da rapire ancor cercò,
ma i bambini ognor lo san
e ad occhi chiusi l’aspetteran.
Dormi, dunque, dormi bebè
se vuoi restar con me.

Rosanna

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